di Pierfranco Bruni
La Grecia e il mito erano nel nel cuore. Le parole elleniche nella voce. Il passo di danza nell’eleganza di Zorba il greco. La teatralità con lei era nel cinema e il linguaggio poetico nella sua eredità. Parlo di Irene Papas, ovvero di Irene Lelekou, Papas era il cognome del marito. Era nata nel 1926. Una delle attrici tanto amata da mia madre con quel suo tessere la tela di Penelope e il raccontare il suono di Antigone e l’Occidente di Platone. È ricordata spesso per la sua interpretazione omerica della donna-attesa e della donna-pazienza, ma ha portato sulla scena non solo storie. Soprattutto destini.
Era il 1996 quando inaugurammo a Taranto il Magna Grecia Festival e volli, fortemente volli, la sua presenza in una serata settembrina, mi pare che fosse il 1 settembre del 1996, a raccontarci con la sua teatralità il mondi greco da Omero e dai Classici a Seferis, Ritsos e Kavavis. Era lo stesso giorno che al Festival di Venezia si presentava il suo film “Party” del regista portoghese Manoel de Oliveira. Lei doveva essere nello stesso giorno a Venezia perché il suo film era in concorso e però scelse la serata di Taranto, di quel mondo greco e Magno Greco nel quale il suo tempo e il suo spazio erano vita.
Perché sottolineo con precisione questo dato e questo fatto? Ero in quegli anni assessore alla cultura della Provincia di Taranto e si impostò il tutto intorno al radicamento greco e chi meglio di una greca come Irene Papas avrebbe potuto rendere un omaggio inossidabile al legame tra grecità e ionicità greca? Irene Papas! Scelse di recitare a Taranto e nello stesso contesto il suo film veniva proiettato senza la sua presenza a Venezia in anteprima internazionale. Cosi come la sua tragedia rappresentata a Taranto era unica. Completamente per Taranto. D’altronde era lo spirito del Magna Grecia Festival: rappresentare serate teatrali uniche. Il dopo Festival di Irene Papas fu una cena in un noto albergo cittadino a base a sapori greci e golfitani. Dichiarò in quella circostanza: “Il fenomeno che m’ interessa riproporre è il ritorno, anche da parte dei giovani, ai moduli e ai mezzi toni della musica bizantina. Sono fonti poi rimbalzate ovunque, dalla Persia alla Spagna, ben individuabili nel flamenco, nel fado, nel cante jondo” (cfr. “la Repubblica”, in “La doppia vita di Irene”, 1 settembre 1996).
Ma vado oltre entrando nel merito del personaggio tra recita e film.
Uno dei suoi primi film risale al 1948. Ma la sua filmografia è abbastanza consistenza e diversificata anche se il segno ellenico resta nelle sue letture e nel suo sublime immaginario. Da “Hamenoi angeloi”, regia di Nikos Triforos (1948) a “La città morta”, regia di Frixos Iliadis (1952), da “Vortice”, regia di Raffaello Matarazzo (1953) a “Missione ad Algeri”, regia di Ray Enright ed Edoardo Anton (1953), da “Teodora, imperatrice di Bisanzio”, regia di Riccardo Freda (1954) ad “Attila”, regia di Pietro Francisci (1954), da
“La spada imbattibile”, regia di Hugo Fregonese (1957) a “I cannoni di Navarone”, regia di J. Lee Thompson (1961). Dal 1961 in poi ci saranno film che la consacreranno al mito e a quei personaggi che resteranno icona mitica come “Antigone”, regia di Yorgos Javellas (1961) o “Elettra”, regia di Michael Cacoyannis (1962), “Giallo a Creta”, regia di James Neilson (1964) o il famoso “Zorba il greco”, regia di Michael Cacoyannis (1964). L’anno successivo arriva il film di Elio Petri “A ciascuno il suo”. “La stirpe degli dei” per la regia di Daniel Mann è del 1969.
Uno dei suoi primi film risale al 1948. Ma la sua filmografia è abbastanza consistenza e diversificata anche se il segno ellenico resta nelle sue letture e nel suo sublime immaginario. Da “Hamenoi angeloi”, regia di Nikos Triforos (1948) a “La città morta”, regia di Frixos Iliadis (1952), da “Vortice”, regia di Raffaello Matarazzo (1953) a “Missione ad Algeri”, regia di Ray Enright ed Edoardo Anton (1953), da “Teodora, imperatrice di Bisanzio”, regia di Riccardo Freda (1954) ad “Attila”, regia di Pietro Francisci (1954), da
“La spada imbattibile”, regia di Hugo Fregonese (1957) a “I cannoni di Navarone”, regia di J. Lee Thompson (1961). Dal 1961 in poi ci saranno film che la consacreranno al mito e a quei personaggi che resteranno icona mitica come “Antigone”, regia di Yorgos Javellas (1961) o “Elettra”, regia di Michael Cacoyannis (1962), “Giallo a Creta”, regia di James Neilson (1964) o il famoso “Zorba il greco”, regia di Michael Cacoyannis (1964). L’anno successivo arriva il film di Elio Petri “A ciascuno il suo”. “La stirpe degli dei” per la regia di Daniel Mann è del 1969.
Gli anni Settanta e Ottanta la vedranno impegnata in film di notevole forza e innovazione cinematografica tra i quali: “Le troiane”, regia di Michael Cacoyannis (1971), “Roma bene”, regia di Carlo Lizzani (1971), “La quinta offensiva”, regia di Stipe Delic (1973), “Ifigenia”, regia di Michael Cacoyannis (1977), “Cristo si è fermato a Eboli”, regia di Francesco Rosi (1979), “Linea di sangue”, regia di Terence Young (1979), “Il leone del deserto”, regia di Moustapha Akkad (1981)
“Cronaca di una morte annunciata”, regia di Francesco Rosi (1987).
“Cronaca di una morte annunciata”, regia di Francesco Rosi (1987).
Nel “Cristo si è fermato a Eboli”, tratto dal romanzo di Carlo Levi, interpretò magistralmente il personaggio di Giulia e il rito del mondo contadino lucano si intrecciò con la sua antica tradizione magica greca. Una figura chiave che Irene Papas tratteggiò con un sapere antropologico profondo. I due decenni successivi testimoniano l’intreccio tra l’esperienza, la formazione e la meditata rappresentazione e sono esemplari film come: “Lettera da Parigi” , regia di Ugo Fabrizio Giordani (1992), “Party”, regia di Manoel de Oliveira (1996), “Inquietudine”, regia di Manoel de Oliveira (1998), “Il mandolino del capitano Corelli”, regia di John Madden (2001), “Podzimní návrat”, regia di Georgis Agathonikiadis (2001), “Ecuba”, regia di Giuliana Berlinguer e Irene Papas (2004).
Un profilo cinematografico che scava marcatamente nella sua vita con la prevalenza costante di quelle radici greche che restano punto di riferimento nella scenografia impostata proprio sulla sua recitante formazione. Per la televisione oltre a “L’Odissea”, regia di Andrej Končalovskij (1997) e alla miniserie del 1968 sempre di fascino omerico, vanno ricordate le miniserie “Mosè, la legge del deserto”, regia di Gianfranco De Bosio (1974), “Un bambino di nome Gesù” regia di Franco Rossi (1987), il film “Il banchetto di Platone”, regia di Marco Ferreri (1989), “Un amore rubato” (1993), “Giacobbe” regia di Peter Hall, (1994).
Il cinema e la televisione come teatro, come letteratura. La recita è nella vita. Il vivere è rappresentarsi nella verità. Concetti riferimento che hanno sempre caratterizzato l’opera di Irene Papas e che lei ha sempre posto come punto centrale nella sua attività di attrice.
Infatti in una intervista del 2006 ebbe a dire: “Per sfortuna o per fortuna io non ho amato mai la scuola. I maestri forniscono un modello che uno imita. Io ho imparato sempre guardando le persone che dicono la verità. Loro possono aiutarmi. Questa è la mia idea di teatro: non si deve recitare, si deve essere. Si deve fare un lavoro, delle ricerche. Allora un attore può creare un personaggio, non recitarlo. C’è molta differenza fra una persona che recita e una persona che non recita ma parla semplicemente. Quando una persona in teatro dice la verità, il popolo – il pubblico – la segue. E questo facevano anche gli antichi greci, assistevano allo spettacolo e la gente percepiva il messaggio del testo. I maestri, i maestri… i maestri possono fare solo del male non del bene perché hanno una opinione già precisa, hanno una maniera già precisa. Io credo che una scuola – alle persone che vogliono conoscere la verità – dovrebbe mettere in mano le chiavi per schiuderne la porta e non spiegare come è secondo loro. A me, se mi dicono come devo parlare, è finita” ( Intervista rilasciata a Giulia Tellini, “Habemus Papas”, in “drammaturgia.fupress.net” il 26 aprile 2006.
Una greca, dunque. Una greca del Peloponneso, nata a pochi kilometri da Corinto. Formatasi in quella terra con il raccontare del padre che sosteneva che la letteratura era finita con Goethe e che il tempo della classicità greca è alla base di ogni viaggio letterario e umano. In in tale contesto Irene Papas si è nutrita culturalmente e tutto ciò lo ha manifestato con il suo mettere in scena la sua vita. Una greca nella bellezza del suo profilo in un vissuto in cui i simboli e la ritualità hanno sempre accompagnato i suoi occhi, il suo sguardo, la sua fisicità. La storia di una donna nel destino di un personaggio che ha posto nel suo essere una antica tradizione e una memoria mai dimenticata.
La tragedia greca è il viaggio nel mito. Quel mito che resta archetipo nelle coscienze di un Mediterraneo tra storia, letteratura e antropologia. Per ritornare al mio incontro con Irene Papas. La serata a Taranto di quell’1 settembre del 1996 si concluse con un suo omaggio ironia nei miei confronti e cantò recitando “Bella ciao”, dedicandola con la sua splendida voce espressamente a chi scrive. Ironia di quel tempo? Fu una grande attrice, una splendida donna, un mito che incarnò ed espresse simbolicamente gli intrecci di un Mediterraneo vissuto che è destino. A lei tutto era concesso. È scomparsa il 14 settembre 2022.