di Raffaele Romano
Il 5 marzo del 1953 moriva Iosif Stalin e sempre il 5 marzo ma del 1933 Adolf Hitler vinceva le elezioni in Germania. Insieme si accordarono col Patto Molotov-Ribbentrop per spartirsi la Polonia dove i sovietici, fra il marzo ed il maggio del 1939, posero fine alla vita di migliaia di ufficiali polacchi col Massacro di Katyn.
Il 5 marzo 2024 le prime pagine dei quotidiani italiani, con tonalità diverse, trattano delle centinaia di dossier abusivi costruiti col prelevare i dati dai vari archivi dello Stato e così dimostrando che al peggio, in questo Paese, non c’è mai fine. Il tutto, sembra, per passare informazioni ad un ristretto gruppo di giornalisti.
La narrazione è, come ormai da 30 anni in qua, sempre la stessa: ci sono quelli che si indignano e protestano e quelli che minimizzano. I primi perché pur essendo stati, diverse volte, al governo non sono mai stati capaci di riavviare il Paese, uscito distrutto dai fenomeni di tangentopoli e mafiopoli, ad una normalità liberale e democratica dove i poteri dello Stato si bilanciano e non sopraffanno nessun cittadino a qualunque categoria egli appartenga. I secondi, quasi sempre salvati, hanno prima avallato e contribuito a rompere il balance of power che dovrebbe sempre reggere l’equilibrio delle istituzioni in democrazia per poi confermare nel tempo tale scelta negativa. Lungi da noi voler fare il tifo per gli uni e/o per gli altri che, dati alla mano, hanno fatto entrambi retrocedere in modo irreparabile questo nostro Paese basta andare a vedere il tracollo del PIL e del reddito pro capite prodotto nei primi anni ’90 e i corrispondenti dati di oggi. Per non parlare della scelta scellerata, sempre fatta e perseguita da entrambi, sul contenimento prima e la riduzione, subito dopo, del costo del lavoro con una politica di bassissimi salari che ha mortificato e quasi distrutto una generazione e mezza. La svendita, nella seconda metà degli anni ’90, di tutte quelle aziende pubbliche nel campo bancario come l’IMI, la BNL, Mediocredito centrale, Credito italiano, Banco Napoli ecc. per non parlare delle industrie, delle assicurazioni e l’intero comparto alimentare.
Come se non bastasse ci sono stati avvenimenti come il caso Palamara e lo scandalo delle nomine al Csm che, al di là del rumore strumentale da entrambe le parti, non ha partorito nulla di concreto a tutti i livelli istituzionali. Di fronte a uno dei più gravi scandali della sua storia la magistratura ha applicato una sorta di amnistia generalizzata nei confronti delle toghe coinvolte, fatta eccezione per pochi capri espiatori, alcuni puniti attraverso procedimenti segnati da svariati conflitti di interessi.
Spesso è stata usata la parola “epocale” che ci sta tutta se viene riferita all’attuale crisi della nostra magistratura. Con alcune meritevoli eccezioni, è una struttura vitale che è in crisi perenne per inefficienza e credibilità basti solo guardare l’ultimo caso di Beniamino Zuncheddu liberato dopo 32 anni di carcere. In generale si assiste a processi molto farraginosi e, quasi sempre, incomprensibili e con sentenze di migliaia di pagine. Oltre ai costi e ai tempi che hanno inoculato solo sfiducia nella maggior parte dei cittadini. Il tutto accompagnato da spasmodiche campagne mediatiche in cui TV e carta stampata ci sguazzano. La deriva illiberale ormai è un dato di fatto acquisito, purtroppo. Dopo un trentennio di questa situazione non si ha più molta fiducia e questo è un male. Lo strapotere della macchina della giustizia in tutti i campi non è un bene e la politica contribuisce con una marea di leggi che, spesso e volentieri, i magistrati interpretano piuttosto che applicare. Come sarebbe tutto più bello e funzionale se, ad esempio, il PM non fosse un magistrato ma un semplice avvocato dell’accusa come nei Paesi anglosassoni con tanto di giuria popolare ed un giudice, veramente terzo, che applicasse le leggi. Tre sono i grandi vizi capitali in Italia: quello legato alla cultura del sospetto che è stata e, purtroppo, ancora è quella miscela esplosiva nata, sviluppatasi e ramificatasi come una vera metastasi in ogni cellula vivente del Paese negli ultimi 30 anni. Essa ha agito come capacità strisciante ed insinuante che ha, ormai, travalicato i fatti per quello che sono, fino ad eliminarne la ragion d’essere, cioè la loro stessa essenza. Un esempio su tutti potrà chiarire a che livelli di inciviltà ci ha portati. Chi non ricorda gli inviti mediatici, fatti da notissimi ed autorevoli rappresentanti di alcune pubbliche istituzioni, a denunciare anonimamente qualsiasi sospetto da parte dei cittadini? (E qui ritroviamo i segni ancora evidenti dei semi di Stalin ed Hitler ancora presenti in mezzo a noi) Questa triste, barbarica e medioevale pratica non poteva, in alcun modo, essere la base del diritto, bensì è stata il fondamento della barbarie. E così è stato!
La cultura ideologica che, per dirla chiaramente, significa: la mia parte è perfetta ed immune da ogni peccato mentre la tua l’altra, quella diversa dalla propria, è il buco nero di tutti i mali dell’universo. Null’altro che il più becero dei concetti che sta alla base di tutti i peggiori fondamentalismi religiosi. La cultura dietrologica che si incastra perfettamente con le altre due prima citate quasi a formare un perfetto triangolo delle Bermude dal quale non si esce. Essa intravede sempre un’ansa nascosta che, spesso, non esiste e dove vengono riposti i peggiori semi del sospetto e li fa diventare fatti reali. Questo cocktail micidiale ha completamente avvelenato la
nostra aria ed ha generato un male endemico di cui non ci si riesce più a liberare: il giustizialismo, di cui ci si accorge solo quando ci colpisce individualmente. A sua volta esso ha determinato quella forma paranoica e perversa della cosiddetta giustizia emergenziale che impone di adottare provvedimenti legislativi aberranti che attaccano e diminuiscono sempre più i diritti civili, economici e sociali dell’individuo. Per potersi sviluppare e crescere tutta questa fenomenologia del terrore ha avuto un esasperato bisogno di quella che è chiamata giustizia mediatica. Infatti solo con essa si riesce a condannare prima di qualsiasi effettiva sentenza giudiziaria. Il perfetto tritacarne nel quale e dal quale non si salva nessuno, neppure dopo l’assoluzione che interviene, spesso, a lustri di distanza.