POSSESSO E SOFFERENZA TRA DESIDERI E REALTA’

Il paradosso del possesso. Perché desideriamo ciò che non possiamo avere

 

di Krishan Chand Sethi

Nel silenzio dei corridoi umani giace un paradosso, un sentimento espanso di desiderio per qualcosa che è sempre appena oltre la nostra portata. Siamo ossessionati dall’illusorio, dall’irraggiungibile, dal misterioso, e proprio queste cose riempiono le nostre menti, invitandoci con un fascino ultraterreno. È come se le vite non realizzate abitassero liberamente nella nostra mente, più preziose nella loro assenza di qualsiasi altra cosa che possiamo realmente raggiungere. Ci ricorda incessantemente ciò che non sarà mai, una sorta di chimera che sussurra piaceri ideali, di come le cose potrebbero essere se solo potessimo raggiungerle.

Nel frattempo, tutto ciò che possediamo scivola nello sfondo, avvolto nella familiarità umida che genera apatia. Dimentichiamo i tesori che sono i nostri compagni quotidiani: le vittorie per cui abbiamo lavorato, le relazioni che abbiamo coltivato, e quelle piccole cose che portano gioia nelle nostre vite. Se questa è la realtà dell’essere fuori dal proprio cammino, ignorando ciò che si ha già per ciò che si deve ancora ottenere, potrebbe solo farci cadere in un ciclo infinito di desideri. Uno che promette sempre di soddisfare al prossimo traguardo, ma raramente mantiene la promessa.

Questo è un ciclo vizioso che alla fine si rivela autodistruttivo nella misura in cui ci spinge indietro. Cercando il prossimo “oggetto,” sminuiamo il presente, privandoci della felicità che deriva dalla gratitudine e dall’apprezzamento, dicendoci che la contentezza è una destinazione futura, un luogo che raggiungeremo solo quando avremo ciò che ci manca. Eppure, più ci avviciniamo a un desiderio che un altro emerge davanti a noi, come un miraggio sull’orizzonte del deserto. È come se il cuore fosse stato addestrato ad inseguire, mai guardare indietro, concentrarsi solo sui vuoti e non sui tesori già acquisiti.

Pensiamo per un momento alla bellezza di un’amicizia ben coltivata, alla serenità di un momento di solitudine, e al calore di sapere di essere amati. Tesori inestimabili, eppure troppo spesso non riconosciuti. Dimentichiamo ciò che almeno avevamo sognato; dimentichiamo ciò che aspiravamo a possedere. Un tempo avevano catturato la nostra mente quando erano irraggiungibili; ora, come sussurri in una stanza piena di rumori, svaniscono nel silenzio. È la possibilità che, prestando loro attenzione, perdiamo la pienezza della nostra vita, quella bellezza nascosta dietro la quotidianità.

Questo paradosso — la consapevolezza che bramiamo ciò che ci manca trascurando ciò che abbiamo — è antico. I filosofi, poeti e pensatori di un tempo ci hanno avvertito di “volere ciò che abbiamo” piuttosto che “avere ciò che vogliamo”. Ma nel nostro mondo frenetico, orientato all’ottenimento di successi, siamo più propensi a celebrare l’ambizione e a scambiare la contentezza per la compiacenza. E la vera contentezza è tutt’altro che compiacente; piuttosto, è un atto di apprezzamento attivo e intenzionale della vita già piena, già abbastanza.

Rompiamo questo ciclo attraverso l’arte della gratitudine consapevole. È una scelta, un atto intenzionale nel notare e valorizzare ciò che ci circonda. Quando ci fermiamo a riconoscere le nostre benedizioni, il nostro cuore trova pace e la nostra mente si stabilizza nell’apprezzamento. Riconosciamo la ricchezza già presente nelle nostre vite. Veramente, i piccoli miracoli: le risate degli amati insieme a noi; la natura splendida; le lezioni degne di essere apprese per la saggezza.

Quando impariamo a valorizzare ciò che ci è caro, sbiadisce il fascino inquietante dell’irraggiungibile. Scopriamo che la maggior parte dei tesori nella vita non è qualcosa che possiamo afferrare con le mani, ma è ciò che conserviamo nel nostro cuore e nella nostra mente. Invece di riempire la testa con ciò che non abbiamo, pensiamo ai tesori che già possediamo. Facendo così, potremmo scoprire che la soddisfazione non sta nella corsa infinita verso il “di più,” ma nella profondità con cui apprezziamo tutto ciò che già abbiamo.

Alla fine, ciò che non possiamo possedere perseguiterà sempre le nostre menti, ma lo fa come un maestro: un silenzioso promemoria a non cercare illusioni, ma a vivere pienamente con ciò che possediamo qui e ora. La vera ricchezza non è il miraggio del desiderio, ma l’apprezzamento calmo e contemplativo di ciò che è reale, e di ciò che dà alla vita una pienezza autentica. E allora scopriamo che la vita è un dono: traboccante e piena solo se lasciata essere.

La mia filosofia: trovare la luce nelle ombre della sofferenza. La sofferenza è stata il mio maestro, nonché l’ombra che mi ha accompagnato per tutta la vita, plasmando il nucleo stesso del mio essere. Ha guidato i miei pensieri, influenzato le mie decisioni e infine modellato la mia filosofia. Queste esperienze non solo mi hanno cambiato, ma mi hanno spinto a introspezione, riflessione e una profonda ricerca su come la sofferenza influenzi la crescita personale e la comprensione. Questa filosofia non deriva da una teoria speculativa, ma dall’esperienza; credo che possa parlare a chiunque abbia mai sentito il peso del dolore e cercato in esso un significato. 

Le origini della mia filosofia. Non ho mai trovato il mio posto tra coloro che sembravano accettare il dolore come parte della crescita. Per la maggior parte delle persone, era solo un ospite indesiderato da evitare, simile a una debolezza. Ma la vita ha avuto il suo modo di cambiare le cose, portando nella mia esistenza perdita, fallimenti e momenti di dubbio personale, spogliando strato dopo strato le illusioni che circondavano la mia identità. Ricordo distintamente un periodo di fallimento professionale e di dolore personale. Non erano episodi rari, ma quella stagione di sofferenza si protrasse così a lungo da rendere estremamente difficile capire chi fossi e quale fosse il mio valore. Quando un progetto significativo fallì, mi sentii sopraffatto dall’inadeguatezza. In retrospettiva, quel fallimento mi spinse verso la resilienza e la creatività. Solo mesi dopo, affrontando un nuovo progetto con le lezioni apprese, capii l’importanza di quell’esperienza dolorosa.

Imparare a vedere il dolore come un’opportunità di riflessione. La sofferenza mi ha insegnato che la riflessione è essenziale. Il dolore zittisce il rumore circostante e ti costringe a confrontarti con i tuoi pensieri. Ho iniziato a pormi domande profonde:

  1. Questo è davvero importante per me?
  2. Sto vivendo una buona vita?
  3. Cosa vuole insegnarmi questo dolore?

Ho scoperto che la sofferenza contiene opportunità nascoste per la crescita. 

Il ruolo della resilienza nella mia storia. La resilienza non è innata, ma si apprende attraverso la sofferenza. Ho capito che è un muscolo che si rafforza con le sfide. In momenti di perdita personale e pressioni professionali, ho trovato una forza interiore che non sapevo di possedere. Ogni sfida superata mi ha insegnato a piegarmi senza spezzarmi. 

Empatia: un frutto della sofferenza. La sofferenza mi ha donato empatia. Prima, i problemi degli altri sembravano distanti. Ora, capisco più profondamente le loro esperienze. Questo ha influenzato non solo le mie relazioni personali, ma anche il mio lavoro creativo. 

La ricerca di significato nella sofferenza. Durante il mio cammino, mi sono chiesto: perché soffriamo? Cercando risposte nella filosofia e nella spiritualità, ho trovato il pensiero di Viktor Frankl: “Quando non possiamo più cambiare una situazione, siamo sfidati a cambiare noi stessi”. Queste parole sono diventate la base della mia filosofia. 

Illusioni infrante e chiarezza acquisita. La sofferenza infrange le illusioni sulla giustizia e la prevedibilità della vita. Pur essendo dolorosa, porta chiarezza, aiutandoci a focalizzarci su ciò che conta davvero. 

La creatività nata dal dolore. Il dolore ha spesso alimentato il mio viaggio artistico. Nei momenti più difficili, la scrittura è stata un conforto, trasformando il dolore in forza e speranza. Racconto spesso questa esperienza per incoraggiare gli altri a usare la sofferenza come trampolino di lancio creativo. 

Sofferenza nelle relazioni e nella comunità. La sofferenza non definisce solo l’individuo, ma anche le relazioni e le comunità. Ho visto la forza che emerge quando le persone si uniscono durante le avversità, trovando sostegno reciproco resilienza collettiva. 

Lezioni pratiche dalla sofferenza

  1. Riflettere: la sofferenza insegna, ma richiede tempo per comprendere le lezioni.
  2. Chiedere aiuto: il dolore non deve essere affrontato da soli.
  3. Focalizzarsi sulla crescita: chiedersi “Cosa posso imparare da questo?” trasforma il dolore in opportunità.

Conclusione: la sofferenza come maestro. La sofferenza è il più grande insegnante. Mi ha condotto alla scoperta di me stesso, portandomi resilienza, empatia e creatività. Non segna la fine, ma l’inizio di un cambiamento profondo. Per coloro che sono in preda al dolore, ecco il mio punto di vista: il dolore non segna la fine ma solo l’inizio di un cambiamento profondo. È un’opportunità per crescere, relazionarsi e apprendere quanto siano profonde la tua forza e la tua saggezza. Come dice Rumi: “La ferita è il luogo dove entra la luce”. Questa non è una filosofia astratta, ma un’esperienza vissuta che continua a plasmare la mia vita e il mio lavoro.

 

Autore Dr. Sethi K.C.

Daman, India – Auckland, Nuova Zeland