Mio figlio Kieran Logi è innamorato dell’Odissea. I miti omerici non sono noti in Islanda, ma i racconti d’un papà italiano e un vecchio sceneggiato Rai l’hanno stregato. In particolare, gli piace Scilla, il cui corpo di ninfa si cela in un antro, mostrando al mondo solo i tentacoli cresciuti al posto delle gambe. La crisi odierna è un po’ come Scilla. Intanto, fa davvero paura; e ha già rovinato tanti sventurati. Poi, come la ninfa, il capo e il busto se ne stanno nascosti. Il profitto privato come dogma,la libera circolazione dei capitali, nonché la fede cieca nella capacità dei “mercati” sregolati di produrre “disciplina” e “ricchezza”sono i capisaldi d’un modello economico perseguito incessantemente negli ultimi trent’anni. A chi
rischia d’essere sbranato si palesano invece varie propaggini di cui si discute apertamente nei giornali: l’alto indebitamento pubblico dell’Italia; quello privato degli Stati Uniti; gli asset “tossici”delle banche americane, svizzere o tedesche che, stranamente, non possono fare bancarotta; o ancora il dissesto delle banche islandesi, crollate dopo solo cinque anni dalla loro privatizzazione. Sì, solo cinque anni. E tanto fu rapido il cammino verso il tracollo, così è stato quello verso la ripresa. Mentre gran parte d’Europa languisce, l’Islanda offre da quasi un anno tassi di crescita tra i più elevati. Cosa è successo? In primis, a differenza dell’Irlanda o del Belgio, le banche sono state fatte fallire. Azionisti e obbligazionisti hanno perso il loro capitale di rischio. In secondo luogo, al loro posto sono ri-sorte le banche dello Stato, il quale ha diretto quel po’ di credito che si poteva erogare alle aziende locali. La Svezia e la Finlandia fecero lo stesso negli anni’90. In terzo luogo, si è salvaguardata l ‘ occupazione. Anche all’apice della crisi, la disoccupazione non è mai salita oltre il 10,5%. Si sono poi fatte delle politiche “regressive-progressive”, come le chiama la giurista Rachael Johnstone. Dati l’improvvisa minor ricchezza e i soldi da restituire al Fondo Monetario Internazionale, anche l’Islanda ha fatto dei tagli. Li ha fatti però partendo dalla cima della scala dei redditi, aiutando invece i più poveri con crediti ed esenzioni. Lo stesso dicasi per la riforma delle aliquote fiscali. I benestanti che più avevano goduto della bolla finanziaria pagano ora i debiti -e solo quelli che si sono ritenuti giusti da pagare. Con due referendum osteggiati perfino dai maggiori partiti politici locali, la nazione si è rifiutata di ripianare le perdite delle banche private islandesi che operavano in Gran Bretagna e Olanda. Inoltre, onde evitare fughe di capitali, la loro libera circolazione è stata sospesa. La Banca Centrale controlla orai flussi, così come avviene in Cina o in India. Infine, si è svalutata la moneta locale, impoverendo i cittadini, ma rilanciando l’export e quindi salvaguardando ulteriormente l’occupazione. Tutto questo, in Italia, non si può fare, soprattutto perchè a Roma si dicono da trent’anni le stesse cose che si odono a Francoforte, Bruxellese Berlino, dove si celano ancora il capo e il busto di Scilla.