Fino a qualche tempo fa, eravamo relativamente pochi a ritenere probabile una deflagrazione dell’attualezona euro. Nell’aprile 2010 scrivevamo che la Grecia non era affatto un caso isolato, ma costituiva un campanello di allarme per l’intera Europa. Nel giugno 2010, con duecentocinquanta economisti sostenevamo che le politiche di austerity e di deflazione, caricate in larga misura sulle spalle dei paesi debitori verso l’estero, avrebbero solo aggravato la crisi e avrebbero reso prima o poi inevitabile lo sganciamento di alcuni di essi dalla moneta unica. All’epoca eravamo ancora piuttosto isolati. Negli ultimi tempi, invece, il numero di osservatori pessimisti sui destini della attuale unione monetaria è cresciuto esponenzialmente. Meglio tardi che mai. Del resto, le evidenze sono ormai chiare a chiunque intenda esaminarle con un minimo di realismo. Pensiamo ad esempio ai tassi d’interesse. Qualcuno si consola del fatto che i famigerati “spread” – cioè le differenze fra i tassi d’interesse dei paesi debitori verso l’estero e i tassi d’interesse prevalenti nella Germania creditrice – sarebbero sotto controllo. Ma il motivo per cui essi al momento non aumentano risiede in misura prevalente nella “anestesia” che la Banca centrale europea ha praticato sui mercati. Se la Bce interrompesse gli acquisti di titoli, la speculazione riprenderebbe con ancor più vigore di prima. E gli spread tornerebbero a salire. Per giunta, a segnalare lo scollamento sempre più ampio tra i paesi dell’eurozona, non ci sono soltanto gli spread tra i tassi d’interesse. C’è per esempio anche quello che potremmo definire “lo spread della disoccupazione”. In Germania i tassi di disoccupazione aumentano poco e in alcune fasi addirittura declinano, mentre in Italia e negli altri paesi del Sud Europa la disoccupazione effettiva cresce vistosamente. Ci sono poi anche gli “spread” che segnalano divergenze tra i dati dei vari paesi europei inerenti alle sofferenze bancarie, alla mortalità delle imprese, nonché ai valori di borsa delle banche, i quali tra l’altro evocano la possibilità di acquisizioni estere dei capitali più deboli ad opera dei più forti. Un altro “spread” altamente indicativo è poi quello tra i costi del lavoro per unità di prodotto. La figura seguente descrive l’andamento effettivo dei costi monetari unitari fino al 2009, e poi una loro possibile proiezione lineare fino al 2025: Se si considera la proiezione lineare come una pur rozza approssimazione dei potenziali andamenti futuri dei costi, la conclusione è che potremmo trovarci ben presto di fronte a una forbice incompatibile con la sopravvivenza stessa della moneta unica. La dimensione dei divari, oltretutto, è tale da rendere risibile qualsiasi tentativo di correggerli a colpi di deflazione salariale nei paesi debitori. Considerato che la stessa Germania in surplus ha praticato la deflazione relativa dei salari, la corsa al ribasso delle retribuzioni necessaria all’aggiustamento sarebbe di tale portata da provocare una nuova, ancor più violenta depressione. Il presidente Monti ha dichiarato che “non siamo nel mezzo, ma verso la soluzione della crisi”. Se ci fosse il vecchio premier, non avremmo dubbi a classificarla sotto la voce “barzellette”.