Secondo Marx ogni epoca storica ha in sé il germe del proprio disfacimento. L’attuale crisi, però, sembra sfuggire a tale analisi per il semplice motivo che conditio sine qua non, per governare la crisi, è conoscere la crisi. Sicuramente non si sa ancora quale crisi si stia vivendo: i profeti di essa sono tutti a posteriori e nessuno, fra i tuttologi, fino ad oggi, è riuscito a interpretarne lo sbocco. Cause e tempi vanno ricercati molto prima del 2008, anno in cui è apparsa come fenomenologia della globalizzazione. La fine della guerra fredda non ha ricomposto le storiche antinomie occidente-oriente e nord-sud del mondo, tanto che l’11 settembre del 2001, insieme con le torri gemelle, sono esplose tutte le contraddizioni della civiltà occidentale. Ci sono stati perfino tentativi di arroccamento a difesa del mondo cristiano e di tutta la cultura da esso derivata in opposizione al mondo islamico, che ha fatto parlare di smarrimento d’identità del primo per invasione e occupazione da parte del secondo: Oriana Fallaci invocava Rabbia e Orgoglio. Una nuova Poitiers o Lepanto non ci sarà mai più: occorrono altri mezzi per far fronte alle odierne necessità. Non serve neppure richiamarsi apotropaicamente al tramonto dell’occidente di Spengler per esorcizzare il fallimento o la crisi che ci attanaglia. Tutti i più rovinosi crolli che si sono succeduti nel decorso dei tempi sono stati preceduti da periodi di crisi e di difficoltà crescenti, si veda ad es. la caduta dei grandi imperi dall’antichità ad oggi. I governanti non hanno saputo arginare l’onda d’urto, da essi stessi generata, che ha travolto e spazzato l’effimero progresso conseguito. L’odierna situazione non presuppone, però, l’imminente catastrofe di un conflitto planetario già latente, anche se il rischio è notevole. Se è vero che non c’è nulla di nuovo sotto il sole e che la natura non fa salti, d’altra parte bisogna riconoscere che nessun evento risulta mai uguale o simile ad altro precedente. Non lasciamoci prendere dal panico e torniamo ad una maggiore concretezza della vita. Il benessere ha espropriato l’uomo della sua stessa umanità per donargli un’essenza virtuale che lo ha illuso sulla possibilità di dominare il mondo intero o gli altri suoi simili. L’economia, intesa come norma per amministrare il proprio spazio (oichòs = ambiente, nòmos = regola, norma, legge), è stata soppiantata da particolari interessi finanziari: la finanza si è imposta sull’economia. Il denaro, cioè, non è più mezzo per procurarsi ciò di cui si necessita, ma diviene fine a se stesso, ovvero serve ad accumulare altro denaro (questo lo dice Aristotele in La Politica). Al di là delle diverse critiche al capitalismo, occorre riflettere che la ricchezza, materialmente intesa, non si sposta più, ma è solo l’aspetto nominale a circolare. Ciò facilita il trasferimento da una proprietà ad altra, ma crea rischi prima impensabili, quali la volatilità del valore stesso che in un baleno si autodistrugge senza lasciare tracce. A tutto ciò è da aggiungere l’ineguagliabile potere di corruzione e di speculazione finanziarie che vanifica qualsiasi norma tendente a regolamentare il mercato e posticipa all’infinito un regime di autoregolamentazione. L’attuale crisi risente di tutto ciò, spetta ad ognuno di noi assumere maggiori responsabilità e vivere secondo le proprie possibilità. L’orizzonte attualmente è cupo e non c’è ancora uno spiraglio che possa far esclamare: “Tempora bona veniat”.