È possibile riconoscere i segnali del disagio?
Si può arginare il fenomeno? Risponde lo psicoterapeuta.
E’ un vero e proprio bollettino di guerra il numero di suicidi imputabili in qualche maniera alla crisi economica. Trentacinque solo nei primi quattro mesi dell”anno. Si parla spesso di imprenditori strozzati dal cappio invisibile delle lungaggini burocratiche
che ritardano i pagamenti dovuti alle aziende dallo Stato anche di due anni. Ma il fenomeno coinvolge tutte le fasce sociali e anagrafiche: disoccupati, pensionati, artigiani, operai, giovani laureati delusi da una società che non dà speranze. È un fenomeno che fa paura. Viene spontaneo chiedersi come sia possibile che una persona dalla vita apparentemente normale decida di punto in bianco, anche se per gravi motivi, di farla finita. Possibile che non ci sia un segnale a indicare la presenza di questo cancro interno che lacera le anime e le menti di queste persone? «In realtà, si tratta sempre di soggetti con una fragilità latente – spiega Carla Pompilii, psicoterapeuta integrata ad approccio fenomenologico-esistenziale –, una fragilità che viene alla luce in particolari momenti difficili e traumatici. Il fallimento di un’azienda ad esempio, è una sorta di terremoto che porta a galla tutta una serie di ansie e timori sentiti come ingestibili da parte del soggetto. Un alto tasso di stress, il senso di responsabilità, l’incapacità di far fronte ai propri doveri, sia nei confronti dei propri dipendenti ma anche della famiglia, sono tutti elementi che possono schiacciare un individuo già di per sé fragile». Un modo per arginare questo fenomeno è sicuramente il dialogo: «è importante – continua l’esperta – che chiunque si trovi in difficoltà ne parli con i propri familiari o con un medico, che non si tenga tutto dentro per paura o per vergogna. Fondamentale inoltre è la famiglia che dovrebbe saper cogliere certi segnali; chi ripete da tempo che la vita non vale più la pena di essere vissuta, mostra agitazione, un’insonnia persistente, trascura il proprio aspetto fisico e l’alimentazione, vende beni e cose che gli sono care come se facesse una sorta di testamento, è soggetto a repentini e immotivati cambi d’umore – tutti campanelli d’allarme – è probabile che soffra di un disagio grave». Questo quanto può fare la famiglia; e lo Stato invece? Le istituzioni fanno abbastanza? La dottoressa è molto critica a riguardo. «Le istituzioni e la sanità sottovalutano il problema, manca un qualsiasi tipo di aiuto, un incoraggiamento o un qualsivoglia messaggio di speranza. Si insiste molto sull’importanza di una politica austera, sul rigore, senza offrire prospettive di speranza e miglioramento. Storicamente tutte le crisi economiche più importanti sono coincise con un aumento del tasso di suicidi, di malattie mentali, di dipendenza da droghe e alcol, per questo è fondamentale offrire un sostegno psicologico a chi è in difficoltà anche attraverso un potenziamento dei servizi di salute mentale. Mi sconcerta il silenzio del servizio sanitario nazionale. Per il momento, infatti, ci si sta muovendo solo attraverso iniziative private di professionisti. È cosa recentissima un progetto promosso e ideato dal Centro Indivenire di Roma. L’iniziativa, ‘Occupiamoci dei disoccupati’, è rivolta a tutti coloro che hanno perso un lavoro o non riescono a trovarne uno e si propone di offrire un sostegno psicologico gratuito da parte di professionisti specializzati che decidono di aderire liberamente. È un messaggio di speranza importante, fondamentale direi, perché, limitarsi a presentare in modo sensazionalistico le notizie di suicidi da crisi economica, induce solo ad altri suicidi innescando un pericoloso effetto domino».