Centri antiviolenza a rischio chiusura, violenza di genere e reperimento fondi, abbiamo fatto alcune domande alla Consigliera di Parità Regionale, Letizia Marinelli: “Per quanto riguarda i fondi ci sono risorse a vari livelli, comunitari, nazionali ecc. Il bando più importante comunitario in tema di
violenza di genere è sicuramente il Daphne, riproposto negli anni fino ad arrivare oggi al Daphne3. Poi ci sono i fondi messi in campo dal dipartimento delle pari opportunità e quelli regionali regolamentati dalla Legge 31 con scadenza del bando annuale a settembre”. Perché il centro antiviolenza ‘La Fenice’, che è l’unico centro teramano, a gestione pubblica, ha rischiato di chiudere? “Facciamo qualche passo indietro. Diversi mesi fa, aprile dell’anno passato, il vicepresidente Rasicci, mediante una lettere aperta , chiedeva il mio intervento per una situazione di difficoltà che ‘La Fenice’già stava vivendo. A seguito di questa gradita sollecitazione abbiamo avuto degli incontri e avviato un lavoro per far rifinanziare la Legge Regionale, legge che avrà pertanto per l’anno prossimo un budget di circa 230 mila euro. Per quest’anno, le risorse a bando con scadenza a settembre scorso avevano soltanto 60 mila euro di capienza e la Fenice non ha partecipato con un proprio progetto al bando! “. Come? “La Fenice non ha partecipato al bando. La prima ad esserci rimasta male sono io. Tutto il lavoro e gli incontri attivati per dare sostegno anche a loro non è servito a nulla. Quando mi sono sentita con le referenti del centro, mi hanno comunicato che la presentazione della domanda era di competenza dell’Amministrazione provinciale. Di contro l’Ente Provincia mi informa che non poteva essere solo una sua competenza. Questa oggi la situazione, ma in realtà le soluzioni erano state individuate”. Ma adesso, dopo l’ errore o negligenza da parte della PA quale potrebbe essere il futuro della Fenice? “Una possibile soluzione poteva essere quella di assorbire le persone che lavorano a ‘La Fenice’ in altre strutture, in un altro progetto che ho curato come soggetto minato “Maia” – casa rifugio. Il progetto è stato finanziato dal dipartimento delle pari opportunità ed in 2 anni arriveranno per i centri antiviolenza circa 400 mila euro. Tuttavia pare che una sola figura professionale di quelle attualmente presenti nella struttura teramana, potrà rientrare in questa progettazione. Attendo notizie anch’io. In definitiva si potrebbero ipotizzare anche dei finanziamenti locali, in effetti la violenza sulle donne è stata inserita, qui in Abruzzo, tra i servizi di livelli essenziali ed è dunque finanziata dai piani di zona”. Poi ci sarebbe un’altra soluzione alla quale sto lavorando e della quale sarebbe prematuro parlarne, non ho l’abitudine di far conoscere le mie attività, prima di realizzarle. La campagna di sensibilizzazione ha già prodotto, comunque, alcuni risultati: sono state reperite risorse provenienti dai gruppi consiliari della Provincia, circa 13 mila euro ( ai quali tutti i partiti hanno rinunciato ) e altri 10 mila euro di contributi che sono arrivati da alcune banche, da privati cittadini, dai dipendenti del comando della Guardia di Finanza di Teramo, dagli stessi dipendenti della Provincia, dal Comune di Colledara e dal BIM. La violenza di genere, quali gli interventi? Possibile un coordinamento dei vari centri abruzzesi? “Occorre dire che le risorse, che possono essere individuate, sono reperibili in svariati ambiti. Se si acquisisse preparazione nella progettualità si potrebbero ottenere risorse con i fondi predisposti a vari livelli, Comunitari, del Dipartimento, ecc.. E’ questo il lavoro che svolgono i centri più professionalizzati. Quando ho iniziato a fare le riunioni con i vari centri antiviolenza, fin da subito ho manifestato la mia disponibilità nel supportare le associazioni con un piano progettuale che prendesse in considerazione la violenza sulle donne con un percorso ampio: dalla prevenzione con interventi di educazione culturale, magari da fare nelle scuole, ad un aiuto di primo approccio, fino all’individuazione di servizi per le donne vittime di violenza ed minori che ne fossero spettatori, per percorsi di allontanamento dal luogo di pericolo, con la possibilità di supporto sociale e lavorativo quando fosse necessario. Se non garantiamo alle donne vittime di violenza un possibile percorso di sostegno, anche economico, dopo il rifugio protetto, manca un pezzo fondamentale del puzzle, che lascerebbe sul campo il problema. Pensiamo ad una donna sola con i figli e senza lavoro, potrebbe accadere che fosse costretta a tornare dal marito che la “massacra di botte”. L’intervento, per essere risolutivo, deve essere a 360 gradi. Ho detto più volte in queste riunioni come sia fondamentale individuare criteri qualitativi e standard di servizi dei centri e del personale che lì lavora, una sorta di “albo” di professionalità. Ho chiesto altresì maggior trasparenza perché si possa conoscere l’ammontare delle risorse alle quali già accedono i centri antiviolenza più preparati e di contro aiutare quei centri che invece fanno più fatica. Sono stata molto chiara, se si vuole lavorare seriamente bisogna iniziare dalla trasparenza, e da regole chiare per tutti in un’ottica di pianificazione regionale che mira a supportare i centri che hanno più difficoltà economica, non i centri che già ottengono diverse risorse con l’accesso a fondi prima esposti. Inoltre la legge regionale dovrebbe essere rivolta ai centri che già operano sul territorio, non possiamo accettare “improvvisazioni” sul campo della violenza. Con questo non voglio dire che le nuove Associazioni che si vogliono accreditare sull’argomento debbano rimanere fuori. Sto dicendo viceversa che le stesse potrebbero accedere alle risorse regionali della 31 dopo una sorta di “praticantato” da effettuarsi anche in collaborazione con i centri antiviolenza già esistenti. Le risorse fi nanziarie come detto ci sono, manca una progettualità di ampio respiro e la sostenibilità delle iniziative che garantisca in futuro il servizio in maniera costante e duratura. Occorre un’organizzazione ed un’ottica di lavoro diversa. A tal fine ho iniziato a parlare d’interventi sistematici e risolutivi ho iniziato a parlare di competenza e formazione di figure professionali adeguate ad esempio ho estrinsecato la volontà che nei centri antiviolenza ci fosse il supporto del neuropsichiatra infantile perché le problematiche dei bambini, vittime di violenza o spettatori, potessero meglio essere colte. Mi è stata opposta la considerazione che non si vuole “ospedalizzare” l’intervento. Ma rimango dell’opinione che le problematiche dei bambini debbano trovare riscontro con professionalità ancora più specifiche. Ritengo insomma che quello che notoriamente avviene attraverso una serie di strutture, anche sanitarie, ossia la presenza di personale non specificatamente o adeguatamente preparato, non debba verificarsi anche per i centri antiviolenza, magari giustificando il discorso dietro un intervento di volontariato. Si perché ci sono strutture che vanno avanti con il volontariato. Il volontariato è necessario, ma non può supplire da solo e rispondere a tutte le necessità”.