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di Daniele La Licata Psicologo
Quando si parla di regole tra genitori e figli si finisce per inoltrarsi in un mare di definizioni, teorie, stili di insegnamento e metodiche utilizzabili; premetto, quindi, che le poche righe che seguiranno vogliono essere, semplicemente, uno spunto di rifl essione sul “rapporto educativo” che lega le diverse generazioni. Se ci impegniamo in uno sforzo di fantasia e proviamo ad immaginare una realtà priva di regole approdiamo in un mondo senza confi ni: perché la regola è necessaria in quanto crea i limiti dell’operato, cioè distingue quello che si può fare da quello che sarebbe dannoso fare. Porre dei limiti signifi ca discriminare, creare quei contorni che danno un senso alle proprie possibilità, signifi ca percepire con maggiore coerenza e chiarezza se stessi; ecco perché un mondo senza regole sarebbe un mondo senza senso. Nelle fasi dello sviluppo la regola è vitale per una sana strutturazione del sé del bambino e del giovane adulto. Continuando nel nostro gioco di fantasia, ci possiamo chiedere, cosa accadrebbe se la regola diventasse tanto opprimente da impedire a priori ogni possibile deviazione. In tal caso la parola dell’insegnamento coinciderebbe con il divieto, diventerebbe una parola immutabile che, persa la sua possibilità di essere messa in discussione, si raffredda e si blocca. Il divieto imposto coincide con lo stile autoritario di insegnamento: una modalità relazionale dove l’adulto si pone come quello che non sbaglia mai ed il giovane come un oggetto da plasmare. Mi ritornano alla mente le drammatiche parole di Franz Kafka che descriveva il suo rapporto di terrore e sottomissione con il padre : “Tu hai infl uito su di me come dovevi influire, soltanto devi smettere di considerare come una particolare malvagità da parte mia il fatto che sotto quest’influsso io abbia finito per soccombere”. (“Lettera al padre” di Franz Kafka) Ritengo inoltre, che il divieto, come metodo educativo nei confronti di un adolescente, ottenga spesso il risultato contrario: la trasgressione, cioè rende ancora più appetibile ciò che non è permesso fare. Se nelle prime fasi dello sviluppo (“Realismo Morale” da uno a 8 anni per Piaget) la morale del bambino risponde al paradigma giusto o sbagliato in maniera assoluta, quasi ci sia un ordine universale che discrimina ciò che si può fare da ciò che non si può fare, dagli otto anni in poi il bambino comincia a comprendere come esista una “morale relativa”: cioè non è sempre possibile distinguere il bene dal male a priori, ma ogni situazione va considerata singolarmente ed in rapporto a molte variabili. Se nella prima fase la regola come divieto può rappresentare una strategia vincente, anche se iniqua, nella seconda fase risulta non funzionale oltre che dannosa. E’ mia premura in questo articolo ricordare al lettore uno strumento molto importante del processo educativo: il dialogo. Credo che esso si carichi di un forte valore educativo sia perché permette una profi cua interazione tra gli interlocutori e sia perché dà modo di scoprire pensieri nuovi attraverso le inevitabili diversità degli individui.
Lo sapeva bene lo stesso Socrate che, durante la sua illuminata vita, aveva deciso di non lasciare niente di scritto; egli sosteneva che la parola, una volta impressa su carta, perdesse la possibilità di modifi carsi perché priva del contributo di altri interlocutori diventando così fredda, inanimata. Un genitore che riesce ad avere un buon rapporto con i figli e che stimola il dialogo ed il confronto può presentare la regola come “accordo” come “patto” tra due o più parti. In questa ottica non si penalizza il rapporto tra gli interlocutori perché esso si configura nella collaborazione (e non nell’imposizione) tesa ad un bene comune. Nella vita quotidiana questa strategia educativa è sicuramente la più faticosa in termini di impegno, ma risulta anche la più adeguata a lungo termine perché da modo di creare uno spazio di riflessione potenziale ad entrambi: al figlio quanto al genitore. Il f glio potenzierà un proprio senso critico e di equità, si sentirà soggetto attivo rafforzando la propria autostima; il genitore potrà venire a patti con degli aspetti di sé normativi senza però rinunciare alla coerenza del suo insegnamento, così da creare uno spazio potenziale di crescita in quanto educatore. Crescere risulta faticoso per il giovane come per l’adulto perché “un accordo educativo” necessita una continua ridefinizione di aspetti di sé rigidi e poco inclini al dialogo che sarebbe più comodo assecondare. Stiamo parlando del continuo conflitto tra forze contrapposte: ciò che vorremmo fare con ciò che sarebbe meglio fare; il tema dell’alleanza tra il desiderio e la legge che Jacques Lacan affronta nel seminario V e che M. Recalcati riprende nel suo libro “Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna”. Spesso ci interroghiamo sulla nascita e la crescita dei figli ma raramente ci chiediamo riguardo la nascita e la crescita dei genitori: con l’arrivo di un neonato assistiamo, contemporaneamente, alla nascita di un padre e di una madre che, come accade al bambino, dovranno confrontarsi con delle esperienze del tutto nuove.
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