Dalla Cultura del possesso alla Cultura del rispetto

PREVENIREPREVENIRE È EDUCARE 

di Emanuela Valente

Dire che sono 120, 380 o due milioni non fa lo stesso effetto che vederle sorridere: questo è il pensiero che mi ha attraversato la mente quando ho aperto per la prima volta la cartella in cui avevo raccolto le loro storie e le foto dei loro volti. Nasce così, quasi

per caso, il sito inquantodonna.it , un vero e proprio data base di storie di femminicidio. In una bacheca le donne, in un’altra gli uomini, in mezzo le storie senza volto: sono oltre 500 in tutto, ma è solo una minima parte.

Lo scopo non è solo quello di ricordarle, ma di rendere omaggio alla loro memoria cercando di farne la base di un rogettoche fermi la crescita senza sosta di questo muro virtuale, che porti non solo a conoscere ma anche a capire, ad identificare il problema senza trovare vie di fuga.

Chiamarlo con il suo nome, “femminicidio” è fondamentale. Il femminicidio ha delle connotazioni precise: basta leggere un pugno di storie per capire gli elementi comuni, il substrato culturale, giuridico e sociale in cui tutto questo è reso possibile. In un femminicidio vi è una donna che è vittima in quanto donna, ed un uomo che la rende vittima in quanto uomo, come se questo rientrasse nei suoi diritti, se non più fra i suoi doveri, o quanto meno lo riscattasse, in una sorta di macabra legittima difesa dell’onore tradito. Sono passati troppi pochi anni dal “delitto d’onore” e tanti cambiamenti nell’assetto sociale e familiare ancora tardano a trovare una comprensione stabile e diffusa, esi-ste ancora nel nostro codice l’abbandono del tetto coniugale, vi sono reati che non sono tali se a commetterli è il coniuge, altri che diventano meno gravi se la vittima non era uffi cialmente sposata con il suo assassino, anche se convivevano da decenni e avevano tre o quattro fi gli insieme. Lentezze burocratiche, iter giudiziari complessi, carenze nel sistema di intervento, garanzie al colpevole ma non alla vittima e ai suoi familiari: tutto questo va ad aggiungersi e a sostenere ancora una struttura basata su una tipologia di famiglia e di società che oggi non può più esistere. Gli equilibri sono stati radicalmente spostati, le possibilità sono modificate in partenza, i ruoli, i ritmi, le aspettative non hanno più nulla in comune con quelli, anche solo, di pochi decenni fa. È un procedimento irreversibile in cui il femminicidio, o l’idea di possesso che l’uomo ha nei confronti della donna, e dei figli, non trovano più spazio, non hanno più ragione di essere. Ma siamo probabilmente in una fase ancora di passaggio, in cui ancora molti uomini e molte donne coltivano in sé l’idea di possesso, attivo o passivo, chiamandolo amore, o gelosia, confondendolo con una connotazione umana, addirittura positiva, che abbatte in un solo colpo le conquiste dei diritti fondamentali della persona. Allora, per progredire nella comprensione e nell’attuazione dei principi affermati, è necessario agire a 360 gradi. Bisogna iniziare con l’educazione, dai primi anni di vita, dalla correzione di quei particolari che possono sembrare insignificanti, come il fi occo o il grembiulino, e che invece tracciano un solco invalicabile fin dai primi istanti. Bisogna certamente intervenire nei rapporti personali e sociali, con l’affermazione concreta di pari opportunità ed uguali diritti. Ma ancor più bisogna intervenire in maniera netta, chiara e decisa con chi viola il diritto principale di una persona alla vita, alla libertà, alla salute, alla dignità. Ad oggi, nel nostro Paese, vi è la diffusa e non immotivata sensazione che commettere un reato non costituisca pregiudizio per il futuro. A nutrire timori, ansie e paure, sono solo le vittime, che rimangono sole, mentre un assassino può fare programmi migliori per il futuro e magari, perché no, raccontarli in televisione.