È ORA DI PRODURRE I DATI DELLA BLACK ECONOMY
Quanto guadagna un mafioso? Quale è il dato sulla disoccupazione tra i camorristi? Quali sono le attività finanziarie sulle quali è concentrata la ‘drangheta? Brancoliamo nel buio. La valutazione del rapporto firmato dall’eurodeputato Søren Bo Søndergaard
sull’utilizzo dei fondi concessi dall’Unione Europea per l’emergenza terremoto non è una partita politica, da giocare nel solito botta e risposta del quale alla lunga nessuno si occupa più, che finisce poi nel dimenticatoio e infine riemerge brutalmente con amare sorprese (vedi la restituzione di contributi da parte delle imprese aquilane). Deve piuttosto aprire la strada ad una reazione concreta e di natura eccellente: decidere di quantificare il valore dell’economia criminale avvalendoci delle competenze della nostra Università. A distanza di secoli, infatti, manca la conoscenza specifica di un settore economico molto poco indagato, sul quale l’economia si è soffermata, forse dolosamente, in maniera spesso dottrinaria piuttosto che matematica: la black economy. Se i dati su una gestione (anche) criminale della ricostruzione ci sono oppure no, cioè se il rapporto è “confuso” oppure no, va dimostrato con i numeri. E poiché l’Abruzzo ha una facoltà di economia (ma anche di matematica e di ingegneria) è opportuno che questa occasione sia colta con il fine più ampio di creare per la prima volta una conoscenza intorno al valore economico dell’economia criminale nel nostro Paese e, quindi, in Abruzzo: l’Università adesso ha l’opportunità di scegliere se essere protagonista sul territorio del quale vive, e se collocarsi in prima fila sul piano nazionale, gestendo e trasformando in positivo un’esperienza che, ad oggi, è solo un colpo mortale per l’immagine dell’Aquila e, conseguentemente, dell’intera regione (va da se’ che la Ricostruzione non è un fatto solo aquilano: 5,5 miliardi di investimento e la circostanza di ritrovarsi ad essere il cantiere più grande d’Europa non possono essere un fatto cittadino). Dunque, l’occasione è d’oro per prendere le distanze dalle chiacchiere e dalle astrazioni dottrinarie nelle quali si perdono gli economisti e i politici, e per assurgere ad un ruolo significativo addirittura anche nel mercato accademico internazionale. L’idea è di creare in modo stabile un percorso specifico nella nostra Università (convogliando corsi, competenze, borse di studio, tesi di laurea e/o qualsiasi altro strumento più adeguato) che si prefigga l’obiettivo di fornire all’Italia una quantificazione dell’economia criminale e di individuare i nessi tra le attività illegali e quelle legali. Il tentativo non è peregrino, basta ripartire dal messaggio del premio Nobel Gary Becker degli anni Sessanta, passando attraverso il tentativo degli anni Novanta dell’allora presidente dell’Istat Guido M. Rey .
Nella patria di Gomorra, limitarsi a contestare i dati dell’europarlamentare danese sarebbe un puro esercizio: spalancare le porte, invece, allo studio di un settore fino ad oggi ignorato dalla moltitudine degli economisti di tutto il mondo imprimerebbe una svolta alla nostra regione, che si è ritrovata ad essere il vessillo di un male che è tristemente specifico dell’intero Paese più che di se stessa. Sembra incredibile, eppure la black economy è guardata ancora adesso con un certo distacco dagli economisti: quale migliore occasione? l’Università farebbe uno scatto in avanti ritagliandosi uno spazio nel mondo accademico nazionale ed internazionale, contestualmente, l’Abruzzo dimostrerebbe di voler procurare risposte certe ed articolate e dunque di non avere familiarità culturale con la malavita organizzata. Abbiamo corsi di laurea con 3 o 5 iscritti, qualche volta dedicati al sesso degli angeli: ritagliamoci un ruolo nei piani alti dell’interpretazione e della produzione dei dati e cimentiamoci in un percorso inedito persino per i più importanti Atenei del mondo.
Il compito è di eccellenza, laddove si consideri che nemmeno sui metodi di rilevazione dell’entità del fenomeno si è condiviso un punto fermo: alcuni statisti americani si rifanno alle anomalie nel rapporto tra pagamenti in biglietti e conti correnti, altri alla differenza tra reddito e spesa, altri alle differenze tra i dati di contabilità nazionale e fiscali. Ad oggi abbiamo solo in generico dato sul sommerso: in Italia varia tra il 12 e il 28% del Pil ma non sappiamo quanto di esso dipende dall’evasione, quanto dal lavoro nero e quanto dal vero e proprio crimine (e già qui il rapporto su l’Aquila non si sa come va letto…). Se Eurispes ci dice che: il Pil sommerso in Italia sarebbe all’incirca di 300 miliardi di euro (il 28% del totale), l’evasione supererebbe i 100 miliardi, i lavoratori in nero sono circa 5 milioni con un guadagno superiore a quello dei regolari… allora, posto che in questi dati ci sono muratori e baby sitter, dove si collocano i killer e gli spacciatori di droga? La black economy è ormai un fenomeno che riguarda un po’ tutto l’occidente: assistiamo ad un giro oscuro che si muove dai flussi internazionali di capitali, passa per i paradisi fiscali, scompare nelle sacche dei narcos o delle mafie e riappare con un nome senza cognome: globalizzazione del crimine. Una quantità di liquidità appetibile per il sistema finanziario soprattutto dopo la crisi del 2008. Eppure nessuno mette le mani sui metodi di rilevazione dell’entità del fenomeno. Il lavoro è tutto nel produrre metodi e dati anziché acquisire quelli degli altri, acquisizione che spesso avviene senza neanche guardare la qualità di quello che ci sta dentro: sistema al quale tutti gli economisti si sono omologati, nessuno escluso. Se la metà degli italiani non crede più alle statistiche economiche (Eurobarometro) ne ha ben donde e, comunque, piaccia o no, il fatto va preso in considerazione. Un esempio semplice sul valore dei dati può aiutare. E’ opinione diffusa che Inghilterra e Stati Uniti spendano meno degli altri nel welfare state: la spesa Usa sarebbe più o meno del 16,2% del Pil e quella svedese del 31,3%, ma è così solo se vengono male selezionati i dati: infatti nelle statistiche internazionali non sono prese in considerazione le spese per deduzioni e detrazioni fiscali con finalità sociali, per cui ecco che la percentuale risulta sottodimensionata. Inserendo invece le spese che lo Stato eroga attraverso il Fisco, l’impegno Usa per il welfare sale al 35,2%, superando di gran lunga quello europeo, mentre il dato svedese scende al 26,1% (ma qui va aggiunto quello che rientra dalle tasse, viste le elevate aliquote fiscali…). Insomma, la realtà che ci viene prospettata come tale spesso è invece un’alterazione risultante da indicatori di sintesi influenzati dal punto di vista di chi li realizza. Per questo ed altri motivi (come domande vaghe e campioni scelti in modo sommario), l’attendibilità degli indicatori costruiti da fondazioni e centri studi internazionali è molto modesta. Insomma, direzionare finalmente l’analisi economica sulla realtà ed usare l’economia per risolvere problemi concreti, piuttosto che per finalità di intimidazione, deve essere la risposta abruzzese: incontrerebbe il consenso di una larga fascia di cittadini, intellettuali, consumatori e imprenditori che si sentirebbero di convalidare un mondo accademico e politico in forte crisi di credibilità.
di Maria Paola Iannella – Direttore responsabile AGEA – Agenzia giornalistica economica d’abruzzo