Alto tradimento, ha detto il presidente del Consiglio, invocando per i corrotti di qualunque colore politico una pedata liberatrice. Bastasse. In realtà la raffica di scandali di questi mesi in particolare su alcune grandi opere pubbliche, è prima di tutto una rivelazione.
Ci spiattella le forme della nostra decadenza nazionale. Nessuno sembra avere il coraggio di dirlo: gli uni perché giustamente oggi serve un po’ di ottimismo per tentare di intercettare una timida ripresa, gli altri perché preferiscono toni molto più aggressivi, speculando sul tanto peggio / tanto meglio. Invece il punto è proprio la squallida banalità della decadenza, tra lussi pacchiani e favori meschini. Chiamare le cose con il loro nome può permetterci da un lato di valutarne l’oggettiva gravità, dall’altro coglierne il rilievo strutturale. E’ un fenomeno che non scopriamo oggi: così, senza meravigliarci più di tanto, sembriamo rassegnati semplicemente a chiederci, dopo Expo e Mose, quale sarà la prossima puntata di una serie infinita. E proprio questo piano inclinato di decadenza banale e meschina spiega come da decenni non sia possibile in un’Italia che decade ed invecchia, impostare una seria politica di investimenti. Prima di tutto proprio sulle infrastrutture, che da sempre sono uno dei volani dell’economia oltre che un essenziale tessuto connettivo del sistema paese. Basta ricordare la telefonata notturna tra due malfattori in colletto bianco dopo il terremoto dell’Aquila, in cui vedevano semplicemente un’occasione di appalti, da conquistare per via di relazioni: orrenda banalità del male. Archiviati i mondiali brasiliani ritorniamo a Italia ’90: venticinque anni fa, di fronte ad un evento che pure coglieva l’Italia in una fase rutilante, lungi dal diventare l’occasione per creare un serio sistema di infrastrutture sportive, la (scadente) ristrutturazione degli stadi fu semplicemente il pretesto per un’ordinaria abbuffata con i soldi pubblici. E il pallone è la metafora più credibile dell’Italia. Allora si era alla vigilia di Tangentopoli, che continua ad essere la rappresentazione della nostra decadenza e del connesso disordine nelle relazioni politica-amministrazione-impresa-magistratura. Il problema non si risolve in un perenne ricorso a supplenze o invocando lo stato di necessità e di emergenza e nemmeno dando fiato alla retorica moralistica. Bisogna allora inasprire le pene, moltiplicare le leggi, i controllori, le norme? L’alternativa è molto più semplicemente la certezza del diritto, per tutti, politica, amministrazione, imprese, sistema giudiziario. Che ne è, per esempio, del principio costituzionale dell’assunzione per concorso? Chi ha mai detto che la semplificazione amministrativa significa arbitrio del più furbo? Forse si potrebbe ripartire da qui: la risposta alla banalità della nostra decadenza comincia, altrettanto banalmente, dal corretto funzionamento delle istituzioni. Che poi è quello che gli italiani hanno richiesto al governo, plebiscitandolo alle urne europee.
PrimaPagina edizione Luglio 2014 – di Francesco Bonini (Politologo – Docente LUMSA)