Stati Uniti e Unione Europea stanno negoziando un gigantesco accordo commerciale di cui si parla molto (tra favorevoli e contrari) e si sa poco.
Con questa sigla si intende il trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti: TTIP è un acronimo del nome in inglese, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”.
È un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America. Il trattato è ancora in fase di discussione, non solo tra le parti: nella politica e tra i gruppi che ne stanno seguendo i negoziati, per alcuni «prevede che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi», per altri faciliterebbe i rapporti commerciali tra Europa e Stati Uniti portando opportunità economiche, sviluppo, un aumento delle esportazioni e anche dell’occupazione.
Qualche numero Il trattato coinvolge i 50 stati degli Stati Uniti d’America e le 28 nazioni dell’Unione Europea, per un totale di circa 820 milioni di cittadini.
Si tratta dunque di un trattato di importanza storica.
I negoziati Nel giugno del 2013 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, dopo più di dieci anni di preparazione, hanno avviato ufficialmente i negoziati sul TTIP; dovrebbero essere completati nel 2015. Il trattato dovrà poi essere votato dal Parlamento europeo, per quanto riguarda l’UE.
Va subito detto che si tratta di negoziati segreti – lo sono ancora, in parte – accessibili solo ai gruppi di tecnici che se ne occupano, al governo degli Stati Uniti e alla Commissio ne europea.
La questione della segretezza è stata e continua a essere uno dei maggiori punti di opposizione al trattato, denunciato da molte e diverse organizzazioni sia negli Stati Uniti che nei paesi dell’Unione Europea. Lo scorso
9 ottobre l’UE ha deciso di diffondere ufficialmente un documento di 18 pagine che contiene il suo mandato a negoziare (documento che però circolava online già da qualche mese). Nel documento diffuso dalla UE,
che è comunque l’unico ufficiale, il TTIP viene definito «un accordo commerciale e per gli investimenti».
L’obiettivo dichiarato dell’accordo (piuttosto generico) è «aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali».
L’accordo dovrebbe agire quindi in tre principali direzioni: aprire una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, uniformare e semplificare le normative tra le due parti abbattendo le differenze non legate ai dazi (le cosiddette Non-Tariff Barriers, o NTB), migliorare le normative stesse.
Accesso al mercato L’accesso al mercato riguarda quattro settori: merci, servizi, investimenti e appalti pubblici.
Si prevede l’eliminazione di tutti i dazi sugli scambi bilaterali di merci «con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell’entrata in vigore dell’accordo».
La liberalizzazione riguarda anche i servizi, «coprendo sostanzialmente tutti i settori, e gli appalti pubblici, per «rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello Questioni normative e ostacoli non tariffari L’obiettivo è «rimuovere gli inutili ostacoli agli scambi e agli investimenti compresi gli ostacoli non tariffari esistenti, mediante meccanismi efficaci ed efficienti, raggiungendo un livello ambizioso di compatibilità normativa
in materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco, l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di regolamentazione».
L’ultimo punto prevede un miglioramento della compatibilità normativa ponendo le basi per regole globali.
Chi è a favore dell’accordo? Diversi studi hanno concluso che l’accordo avrà benefici sia per gli Stati Uniti che per
l’UE. Gli studi favorevoli al trattato hanno stimato che il PIL mondiale aumenterebbe (tra lo 0,5 e l’1 per cento pari a 119 miliardi di euro) e aumenterebbe anche quello dei singoli, poiché ci sarebbe una maggiore concorrenza,
si avrebbero anche benefici generali sull’innovazione e il miglioramento tecnologico.
Si avrebbero infine dei benefici derivanti dalla semplificazione burocratica e dalle regolamentazioni.
Chi critica l’accordo Vari soggetti si oppongono all’accordo: una rete di associazioni di vari paesi europei e
statunitensi, fino a studiosi ed economisti vari. Una delle principali critiche ai negoziati è la loro segretezza e una serie di obiezioni che vedrebbero i mercati invasi, per esempio, da farmaci meno affidabili, aumento della
dipendenza dal petrolio, perdita di posti di lavoro per la scomparsa delle norme sulla preferenza nazionale in materia di forniture pubbliche, assoggettamento degli stati a un diritto fatto su misura per le multinazionali, e così via. Un’altra analisi, fatta per l’UE da una confederazione sindacale francese sostiene che l’armonizzazione delle norme
sarebbe fatta al ribasso, a vantaggio non dei consumatori ma delle grandi aziende.
Inoltre il trattato avrebbe conseguenze negative anche per le piccole e medie imprese. Ci sarebbero anche rischi per i consumatori perché i principi su cui sono basate le leggi europee sono diverse da quelli degli Stati Uniti. In
Europa vige il principio di precauzione (l’immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi) mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario. Infine i negoziati sono orientati
alla privatizzazione dei servizi pubblici quindi secondo i critici si rischia la loro scomparsa progressiva.
Sarebbe a rischio il welfare e settori come l’acqua, l’elettricità, l’educazione e la salute sarebbero esposti alla libera
concorrenza delle multinazionali.
Una delle questioni più controverse riguarda la clausola ISDS, Investor-State Dispute Settlement. È molto contestata anche da alcuni governi, innanzitutto quello tedesco. Prevede la possibilità per gli investitori di ricorrere a tribunali terzi in caso di violazione, da parte dello Stato destinatario dell’investimento estero, delle norme di diritto internazionale in materia di investimenti.
Le aziende – dice chi critica la clausola – potrebbero insomma opporsi alle politiche sanitarie, ambientali, di regolamentazione della finanza o altro attivate nei singoli paesi reclamando interessi davanti a tribunali terzi, qualora la legislazione di quei singoli paesi riducesse la loro azione e i loro futuri profitti tanto da « immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti. Si può concepire il fatto che queste possano reclamare e ottenere una generosa compensazione per il
mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazio ne ambientale troppo rigorosa».
PrimaPagina, edizione gennaio 2015 – di Angela Fosco