Disaffezione, scollamento, allontanamento dei cittadini dalla politica.
O ancora, disincanto, frattura e sfiducia. Espressioni
ampiamente utilizzate e talvolta abusate per definire, in estrema sintesi, il rapporto che intercorre tra i cittadini e la politica. Termini, altresì, che hanno generato una sorta di assuefazione semantica per cui, oramai, si tende a percepire quasi con superficiale indifferenza il non-rapporto che intercorre tra i cittadini e la politica.
Un binomio, quest’ultimo, paragonabile a quello docentestudente. In altre parole è come se la classe politica, seppur consapevole dei suoi errori e affetta dalla sindrome del Marchese del Grillo, si ergesse a portatrice di superba infallibilità e, dal pulpito cattedratico, giudicasse gli italiani, i suoi alunni, definendoli fi nanche disinteressati
alla res publica.
E invece i cittadini, esasperati dalla inconcludenza e indignati dal comportamento puramente af aristico di molti personaggi pubblici, hanno optato – per rimanere nella metafora docente-studente – per una formazione del fai da te. E quindi, non si è più disposti ad accettare aprioristicamente, come portatrice di verità assoluta, qualsiasi proposta programmatica solo per una questione di “appartenenza” politica, ma ci si informa, ci si interroga, ci si confronta. In primis in Rete, ma anche sui media mainstream.
Questa tendenza trova conferma nel sondaggio nazionale sul reddito di cittadinanza. La stragrande maggioranza del
campione infatti non si è solo dichiarata, a parole, conoscitrice dei contenuti della proposta, ma lo ha dimostrato nei fatti rispondendo correttamente ai test insidiosi che si celavano dietro alcune domande.
Non si esprime l’accordo su una proposta di Governo (in questo caso il reddito di cittadinanza) semplicemente perché lo ha proposto il partito o il politico che si sostiene, ma si tratta di un consenso che si basa sulla ef ettiva
conoscenza della proposta.
Quello a cui assistiamo oggi è un rapporto asincrono tra politica e società. Una situazione che per molti aspetti ricorda quella dei cosiddetti workers buyout, lavoratori e dipendenti di grosse aziende dichiarate in fallimento e che, riunendosi in cooperative, rilevano l’azienda salvaguardando non soltanto la propria attività lavorativa ma anche il futuro dell’azienda stessa. Allo stesso modo i cittadini, esasperati da una politica fallimentare, si stanno attrezzando per organizzarsi come i workers buyout e, per salvaguardare la res publica dal fallimento, delegittimano la classe dirigente pronti a intraprendere il processo di subentro aziendale.
Una cessione aziendale che, nel nostro Paese, è stata avviata qualche anno fa quando un nonpartito ha legittimato la rappresentanza politica da parte della stessa società civile.
Il sondaggio nazionale sul reddito di cittadinanza1 ha avuto come obiettivo la valutazione, da una parte, dell’effettiva conoscenza dei contenuti della proposta, dall’altra parte del suo grado di accettazione e condivisione. Al fine di verificare, dunque, la reale conoscenza del provvedimento, agli intervistati è stato somministrato un breve test dai cui risultati emerge nel complesso una elevata conoscenza e padronanza dei principali punti della proposta di legge. Interrogati sui potenziali destinatari del reddito di cittadinanza, la quasi totalità degli intervistati (90,2%)
ha infatti risposto correttamente, indicando come vera l’affermazione secondo la quale avranno diritto al sussidio tutti coloro che si trovano sulla soglia di rischio di povertà. Ancora, elevata e significativa appare la percentuale, pari al 90,2%, di chi ha giustamente indicato come vero un altro dei punti principali della proposta: il contributo versato corrisponderà a una cifra necessaria per il raggiungimento, anche tramite integrazione, di un reddito netto quantificato sulla base della soglia di povertà. Evidentemente bisogna spiegare meglio il ruolo dei Centri per L’impiego.
Dai risultati del sondaggio infatti non si evince invece una chiara consapevolezza di un altro aspetto importante della proposta: il reddito di cittadinanza non prevede infatti che il beneficiario debba accettare qualsiasi tipo di proposta lavorativa che gli venga offerta dal centro per l’impiego; al contrario la proposta dovrà essere in linea e appropriata rispetto agli skills e al curriculum del candidato. Il 67,8% è favorevole, ma il 43,4% a patto che i destinatari siano italiani. Benchè il 67,8% del campione si dichiari complessivamente favorevole all’erogazione del contributo, ben il 43,4% degli intervistati individua come possibili beneficiari soltanto i cittadini italiani, escludendo
dunque gli stranieri. Per contro il 24,4% del campione ritiene che il reddito di cittadinanza debba essere destinato a tutti i cittadini residenti sul territorio italiano, compresi quindi gli stranieri.
Pari al 29,4% invece la quota di coloro che si dichiarano contrari tout court I contrari temono tasse e disincentivo alla ricerca del lavoro. Il 35,5% del campione intervistato reputa inutile il reddito di cittadinanza. Tra i contrari, il 56,3% è convinto che all’erogazione del contributo farà da contraltare una maggiore pressione fiscale, necessaria per costituire il bacino economico cui attingere. Il 43,8% di chi giudica inutile il contributo, infine, ritiene che questo possa innescare una perversa spirale assistenziale: l’erogazione del contributo rappresenterebbe infatti
un disincentivo alla ricerca di un lavoro da parte dei beneficiari. Questo a sua volta darebbe forma a una nuova concezione del lavoro, che verrebbe inteso più come sussistenza che come un percorso di crescita e sviluppo della persona. Dunque un nuovo modello della cultura del lavoro.
PrimaPagina – ed. luglio 2015 – a cura di Nicola Ferrigni