I dieci motivi del perche’ NO ad Ombrina

Il giorno 13 Aprile 2013 circa 40.000 abruzzesi sono scesi in piazza a Pescara per protestare contro il progetto petrolifero “Ombrina Mare” della Medoilgas (MOG) di Londra che prevede la trivellazione di sei pozzi di petrolio, l’installazione di una piattaforma a sei chilometri da riva e di una nave desolforante di tipo FPSO a nove chilometri dalle spiagge d’Abruzzo. 

Da allora sono comparsi una serie di articoli sulla stampa nazionale sul tema, inclusa una lunga lettera dello stesso amministratore delegato della MOG, Sergio Morandi che sul Corriere della Sera elenca tutti i supposti motivi a favore di Ombrina, criticando anche il lungo e paziente lavoro di informazione e di indagine che abbiamo portato avanti in questi anni.

Sono di origini abruzzesi, anche se vivo in California da anni. Conosco e amo la riviera teatina e al contempo mi reputo una persona di scienza libera, indipendente, intelligente e, a differenza di Morandi, non ho alcun tornaconto personale in questa vicenda. Ho semplicemente letto tutti i dettagli del progetto Ombrina e sono giunta alla conclusione che questa sarà assolutamente deleteria per la costa teatina e per i suoi residenti, per questi motivi:

1. Il petrolio d’Abruzzo è poco e non cambierà di uno iota lo scenario energetico nazionale. E’ la MOG stessa a fornire stime ai suoi investitori secondo le quali al massimo si ricaveranno fra i 20 e i 40 milioni di barili di petrolio da Ombrina. Considerato che l’Italia consuma circa 1.5 milioni di barili al giorno, i conti sono presto fatti: nella migliori delle ipotesi, e assumendo che verrà tutto commercializzato in Italia, il petrolio estratto da Ombrina nell’arco di 24 anni basterà a soddisfare in totale fra le 2 e le 4 settimane di fabbisogno nazionale. 

2. Il petrolio di Ombrina è di qualità scadente, ricco di impurità sulfuree e di indice API 17. Questo indice varia dagli 8 delle Tar Sands del Canada (il peggior petrolio del mondo) ai 40 del West Texas e dei mari del Nord (fra i migliori). Ovviamente peggiore la qualità del petrolio, maggiori sono gli impatti sull’ambiente. Sono proprio le impurità sulfuree a dare maggiori problemi perché causano corrosione e difficoltà di trasporto del greggio, rendendo necessaria la desolforazione – l’eliminazione dello zolfo – in loco, vicino al posto di produzione. 

3. Ecco allora la necessità di usare una FPSO – la “nave galleggiante” cui si riferisce Morandi. La sigla FPSO sta per “Floating Production Storage and Offloading” unit cioè unità galleggiante di stoccaggio, trattamento, e scarico. Il petrolio non si separerà magicamente da acqua e gas come vuole far credere Morandi, servirà invece una delicata operazione di eliminazione di scarti sulfurei e non, che include una fase di incenerimento di rifiuti a fiamma costante, 24 ore su 24. La stessa MOG stima che l’insieme di tutti i prodotti di scarto bruciati sarà di almeno 80.000 chilogrammi al giorno, inclusi materiali speciali e pericolosi. 

4. La reazione chimica di base che usualmente si usa per desolforare il greggio e che porta alla creazione di “zolfo puro”, è il processo Claus, una reazione all’equilibrio, che non è mai completa al 100% e che porta a scarti collaterali fra cui il pericoloso idrogeno solforato (H2S), e che sarà bruciato. Tutti gli impianti che trattano petrolio amaro come quello d’Abruzzo usano questa prassi, incluso il centro Oli di Viggiano, in Basilicata. Fra l’altro i limiti legali in Italia per l’H2S sono di migliaia di volte superiori a quelli applicati in altre parti del mondo: per gli impianti Claus si possono emettere anche 20 ppm di H2S , mentre, ad esempio, in Massachusetts il limite tollerato in atmosfera e’ di 0.00065ppm. Quindi, tanto “stringenti” come li chiama Morandi i limiti italiani non sono. 

5. Morandi dice che lo zolfo sarà utile per la produzione di fertilizzanti e altri derivati, ma dimentica di ricordare che nel mondo esiste una sovrapproduzione di zolfo puro proprio a causa della crescente raffinazione di petrolio ad alto tenore sulfureo. L’industria dei fertilizzanti non può che assorbire una piccola parte di questo zolfo, quindi dei 500 chili al giorno di zolfo previsti da Ombrina se ne potrà tranquillamente fare a meno

6. Oltre agli scarti atmosferici, ci sono quelli in mare. Una delle prassi più comuni nell’industria petrolifera è il rilascio a mare – accidentale o volontario – di materiale di perforazione e di acque di produzione, che non vuol dire acqua di ruscello, ma acqua inquinata mista a residui petroliferi. Cifre ufficiali del governo di Norvegia parlano di 3000 tonnellate l’anno di materiale di scarto rilasciate in mare. Qualche anno fa vi fu uno studio del governo americano nel golfo del Messico – GESAMP – dove si giunse alla conclusione che i tassi di mercurio nei pesci catturati nei pressi delle piattaforme erano 25 volte superiori a quelli catturati più lontano. Simili studi norvegesi e inglesi riportano situazioni simili. Nello specifico di Ombrina è bene ricordare che già durante la fase di esplorazione temporanea nel 2008 comparvero delle macchie di idrocarburi in spiaggia, coincidenza alquanto singolare. Per di più quell’anno l’ARTA Abruzzo accertò inquinamento “medio” attorno ad Ombrina mentre in acque distanti dal pozzo l’inquinamento era rimasto “basso” – questo dopo solo tre mesi di operazione. Infine, è importante ricordare che all’interno della concessione sussiste una riserva di pesca, finanziata dall’UE: chiudiamo le acque ai pescatori, e le apriamo ai petrolieri? Non è un controsenso? 

7. Morandi dice che non sono previsti scoppi ed incidenti. Gli siamo grati. Gli scoppi sono eventi rari, è vero, ma ne basta uno solo per mettere in ginocchio tutto quanto di buono già esiste sul territorio. Quando si parla di incidenti si pensa solo al golfo del Messico, nel 2010. Ma in verità ve sono altri che si susseguono in vari angoli del mondo: in Adriatico sarebbero particolarmente deleteri, considerato che è un mare chiuso, con un ricambio d’acqua non certo paragonabile a un oceano. Restando solo in ambito di FPSO, al largo delle coste britanniche ce ne sono circa 15, tutte a distanza molto maggiore di quanto proposto in Abruzzo. Qui, le statistiche relative al periodo 1996-2002 parlano di circa 40 incidenti l’anno per nave FPSO, inclusi ferimenti, morte, incendi, sversamenti in mare, scontri con altre navi, problemi agli ancoramenti, e agli oleodotti. Non è vero poi che le navi FPSO causano meno impatto ambientale, la chimica e le emissioni non cambiano. 

8. Considerati questo tipo di rischi, gli stati Usa che si affacciano lungo il Pacifico e l’Atlantico hanno deciso di vietare tutte le attività petrolifere nei loro mari: vige qui una fascia di rispetto di 160 chilometri da riva che in Florida diventa di 200. La moratoria è in vigore da più di 30 anni. In California non sono state più costruite trivelle a mare dopo il 1969, dopo uno scoppio a Santa Barbara. Questo perché si è capito che trivelle e qualità di vita sana non si sposano. E’ solo il golfo del Messico che è stato sacrificato al petrolio: il Texas e la Louisiana hanno scelto di puntare sugli idrocarburi con tutte le conseguenze che questo ha portato. Non è un caso che si sogna il mare di Malibu e non quello di Galveston. E’ sempre interessante ricordare a questo proposito la dicotomia Gela-Taormina. La prima, sessanta anni fa, disse sì all’industria petrolifera, la seconda no. Credo che sia lampante oggi vedere chi abbia fatto la scelta migliore. Morandi cita la riviera romagnola ma non ricorda i gravissimi fenomeni di erosione delle coste e della subsidenza dei mari di Ravenna, causati anche dalle estrazioni di metano in zona. Studi condotti per conto dell’ENI mostrano la connessione fra subsidenza e produzione metanifera; in Emilia Romagna alcuni tratti di fondali si sono abbassati anche di due metri in 20 anni a causa delle estrazioni di idrocarburi. 
9. E tutto questo in cambio di cosa? In Italia, le royalties in mare sono del 4%. Leggendo i comunicati agli investitori della MOG e di tutte le altre ditte petrolifere che vogliono venire in Italia, si legge sempre la dicitura “excellent fiscal regime” (Petroceltic) oppure “Italy’s tax regime for oil and gas producers remains among the most favorable worldwide” (il regime fiscale in Italia per i produttori di petrolio e gas rimane tra i più positivi in tutto il mondo – Orca Exploration). Di contrasto, la Norvegia utilizza quest’altra dicitura: “A causa degli straordinari profitti associati con l’industria del petrolio, una addizionale tassa speciale del 50% è applicata.” La Norvegia investe la maggior parte dei fondi petroliferi in speciali fondi pensioni programmati per durare anche dopo l’esaurimento dei giacimenti. Proprio come in Italia, vero? 

10. E’ utile anche ricordare che ad Ombrina venne già rilasciato parere negativo nel 2010 dall’allora ministro Stefania Prestigiacomo che per la prima volta in Italia coraggiosamente decretò anche una fascia di rispetto di 5 miglia (9 chilometri) lungo tutto il perimetro nazionale e di 12 miglia (circa 22 chilometri) nei pressi di riserve naturali. Il successivo governo Monti/Passera sostituì questo decreto con l’articolo 35 del Decreto Sviluppo del Luglio 2012 in cui il limite veniva esteso a 12 miglia per tutto lo stivale, ma con applicazione solo per progetti e concessioni successive al 2010. Queste trame machiavelliche lasciarono Ombrina fuori da qualsiasi fascia di protezione, riaprendo la strada al dibattito attualmente in corso. 

Ci tengo ancora una volta a denunciare la mancanza di trasparenza da parte del governo su questo tema, come emerge dalla corrispondenza interposta fra l’ex ministro Clini e lo stesso Morandi, in cui quest’ultimo ricorda, riferendosi al decreto Prestigiacomo, che i “danni elevatissimi […] che la nostra azienda è destinata a subire, sono stati già esposti e quantificati agli uffici del Suo Ministero in occasione di precedenti incontri” e in cui poi lo ringrazia, riferendosi al Decreto Sviluppo, per “ il prezioso contributo” alla “soluzione poi adottata dal Governo al fine di porre riparo ad una situazione insostenibile oltre che ingiusta per gli operatori del settore”. 

Ma aldilà di tutti questi dati, e di questi teatrini, c’è una cosa che Sergio Morandi non potrà mai capire: la costa teatina è il mare degli abruzzesi, amato e vissuto da noi tutti. Non lo vogliamo colonizzato da piattaforme, trivelle, porti petroliferi, oleodotti. E’ un popolo intero che lo chiede: dai politici regionali, provinciali e i sindaci, dalla Chiesa Cattolica alla Confcommercio, dalle cantine del vino agli operatori turistici, dalle associazioni studentesche, a quelle culturali, dagli scout ai centri sociali, tutti hanno detto no, ripetutamente e con convinzione dal 2008 ad oggi.  Solo la MOG insiste e diabolicamente persiste.

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CHI è MARIA RITA D’ORSOGNA

http://dorsogna.blogspot.it/

Maria Rita D’Orsogna

Fisico, docente universitario, attivista ambientale.

Nata e cresciuta nel Bronx da genitori abruzzesi  emigrati,  ha  trascorso l’infanzia fra la tolleranza e la curiosità di New York City e la serenità e il verde di Lanciano, in provincia di Chieti.

Laureata a Padova in Fisica nel 1996,  dopo aver trascorso del tempo a Milano, Parigi, Chicago e Washington,  è approdata a Los Angeles, dove vive stabilmente dal 1999.

Nel 2007 venne a sapere che l’ENI intendeva trasformare i vigneti di Ortona, lungo la costa teatina, in un campo di petrolio con annessa raffineria. “Non so cosa sia scattato dentro di me ma, sebbene lontana, non potevo accettare che l’ENI portasse via un angolo d’Abruzzo e cosi, in un misto di amore italiano e di razionalità americana, ho dato tutto quello che avevo per salvare la contrada Feudo dalle grinfie dei petrolieri”.