Le espressioni dialettali, quelle tramandate con i giochi infantili, in altre parole, gli stessi nomi delle attività ludiche apparentemente spontanee della prima infanzia, hanno un alto riscontro di varianti, anche solo in ristrette aree geografiche.
Esse variano, infatti, da luogo a luogo, da città a città, da rione a rione, nelle piccole comunità di parlanti la stessa lingua e lo stesso dialetto.
Forse a causa della loro trasmissione orale all’interno dei gruppi di parlanti (i bambini) che data l’età, non sempre hanno chiara percezione dei significati delle parole (scarsa trasparenza linguistica); per cui l’ascolto per assonanze, allontanandole dalla forma originaria, diciamo quella classica, oppure corretta, o meglio ancora, quella etimologicamente più naturale, ne favorisce la banalizzazione. Quando non sono addirittura espressioni spontaneamente inventate per analogia: vere creazioni originali.
Voglio analizzare un modo di dire, ricordo d’infanzia, di una persona anziana interpellata a distanza di tempo, quando già aveva sperimentato l’emigrazione dalla sua città natale, Castellammare di Stabia in provincia di Napoli.
Si chiedeva, lontano ormai dalla regione, e nello spazio e nel tempo, e soprattutto distante linguisticamente a causa della diuturna pratica di una seconda lingua, si chiedeva che cosa significasse l’espressione: “pazziammo a sségula balanza” che ricordava di aver usato da ragazzo quando tra bambini si voleva giocare all’altalena.
Per quanto mi possa ricordare io, noi ragazzi di Torre Annunziata, città confinante a nord di Castellammare, quel gioco indicato dall’espressione “pazziammo a sségula balanza” lo chiamavamo semplicemente “altalena”. Almeno tra quelli del mio caseggiato, considerato il fatto che, per l’età, non ci si allontanava molto dal cortile di casa.
Mi rendo conto però che altalena è anche il gioco da cortile (o da prato) che si fa con un asse – o un sedile – mobile sospeso mediante lunghe corde ai lati, ad una trave o ad un ramo orizzontale di una certa altezza. E farsi dondolare a spinta, a mo’ di pendolo.
Mentre l’altra altalena, chiamiamola pure la “ségula balanza“, è formata da un asse abbastanza lungo, poco sollevato da terra, basculante su di un appoggio centrale che gli fa da perno, e che, sollecitata da due persone poste alle due estremità, si muove a saliscendi alternati.
Oggi che la maggior parte degli abitanti delle città vivono nei condomini dove di cortili e di prati se ne vedono pochi, l’attrezzo per l’altalena – nelle due versioni – è confinato ai parchi-gioco per bambini, o in qualche spazio condominiale particolarmente attrezzato.
Ma, veniamo al saliscendi tipo “ségula balanza” del nostro titolo, la cui espressione deve essere intesa come un invito al gioco, necessario al fatto che si aveva sempre, e comunque, bisogno di un’altra persona per giocare. “Uagliò, pazziàmmo a sségula balanza?”
E veniamo all’etimologia. Pazziammo è voce (napoletana) del verbo pazziare, da cui anche pazziella, pazziariello e pazzia (da non confondere con la “pazzia” che si incontra al manicomio, che è solamente un omofono, cioè ha lo stesso suono, ma è un’altra parola). Il nostro pazziare, corrisponde alla voce italiana: “giocare”.
Dal verbo greco (antico) paìzein, a sua volta dal nome pais, paidòs (ragazzo, bambino) da cui tutta una serie di parole: “pediatra” (medico dei bambini) e “pediatria”, “paidea” (sistema educativo) e “pedagogia” (scienza dell’educazione) e anche il napoletano “pazziare” (trastullarsi come fanno i bambini). [Ma pure gli aberranti: “pedofilia” e “pedofilo” (etimologicamente: “amico dei bambini” – si fa per dire).
E così, “pazziella” è giocattolo, “pazziariello” è giocherellone, e “pazzìa” è gioco.
Balànza, o valànza, è la bilancia. E il gioco in oggetto utilizza proprio un attrezzo che ha la forma (e l’idea) di una bilancia a due piatti, un bilanciere: da una parte una bambina; dall’altra, un’altra.
Ho detto “bilancia a due piatti”. Ma questa è una ridondanza. Perché etimologicamente “la bilancia” è solo quella a due piatti. Infatti “bis + lanx” significa proprio due piatti (vedi: “lasagna” : lanx satura = piatto pieno, … di ogni ben di Dio).
Ora la cosa che presenta qualche problema è “ségula”. A me, naturalmente! … Ché non conosco la parola. Allora devo procedere per supposizioni.
O ségula è diminutivo di “sega”, e allora la parola potrebbe essere originata dall’immagine creata dal movimento ripetitivo dell’asse, il saliscendi che come una sega va avanti e indietro. Oppure ségula è la forma locale di quello che nel mio lessico famigliare si diceva ‘nzòcolo, una forma avverbiale per dire “in maniera da godere del piacere del movimento traballante di un veicolo”; esempio: “andare ‘nzòcolo”; o del movimento a dondolo: “a zonzolo” (oppure “in gioco”, detto alla veneziana: “in zoco“) delle gambe della nonna quando vezzeggiava il bambino, dondolandolo. E qui le due cose si incontrano in quella filastrocca, anche da noi, recensita tra quelle che si cantavano ai bambini (spingendoli avanti e indietro) ancora cinquant’anni fa: “Sega, sega, mastu Cciccio, ‘na panella e ‘nu sasiccio, ‘a panella ci’a mangiammo, ‘u sasiccio ci’o stipammo, ci’o stipammo p’a ser’i Natale, quanno vènono i zampugnari”. [Sega, sega, mastro Ciccio, una panella e una salsiccia: la panella la mangiamo, la salsiccia la mettiamo da parte, la conserviamo per la notte di Natale, quando verranno gli zampognari.]
Quindi, sintetizzando il tutto, potremmo tradurre l’espressione con la forma italiana: “Giochiamo a saliscendi con l’altalena a forma di bilancia?”
Resta però, visto che l’abbiamo nominata spesso, da spiegare la parola “altalena”.
Come indicano i migliori dizionari, dovrebbe derivare dalla parola latina tollèno, nome di una macchina da guerra che serviva a sollevare oggetti, pesi, acqua o altra zavorra, trasformata e banalizzata dall’uso e che nel tempo ha perduto la sua trasparenza semantica.
di Luigi Casale