Da quando i Pretuzii decisero di costruirvi il primo villaggio sono passati millenni. Il Tordino e il Vezzola erano fiumi e quel villaggio divenuto città ha visto l’imperialismo romano, il paleo-cristianesimo, l’Umanesimo, il Medioevo feudale, lo Stato Pontificio e il Regno Borbonico, difeso strenuamente dall’incombente cambiamento garibaldino. Una città sopravvissuta a pestilenze, terremoti e guerre, anche intestine. Storicamente una città che ha fatto della resistenza il suo carattere distintivo.
Mentre contiamo i resti di quello che rimane dopo le “piaghe d’egitto” degli ultimi mesi, ci sentiamo tutti sopravvissuti, ma al capezzale di un moribondo. Che Teramo sia “morta” è ormai un luogo comune, e le macerie delle strade e delle case, che affiorano dalla neve e dalle piogge di questi giorni tristissimi, sembrano il sigillo di un pensiero che da anni tutti sentono rimbombare nella mente. Ad aggravare la situazione “del malato” la scena politica locale incapace (ormai anche suo malgrado) di azioni e risposte ad una popolazione impoverita dalla crisi economica, stremata dall’ansia e dalla paura del terremoto e senza visione di futuro. E non aiuta certo il conflitto politico tra le diverse posizioni che non riesce ad ascoltare ed incontrare le domande delle persone. Persone che stanno andando via, spopolando la città, verso la costa più accogliente. Teramo è morta? Non ancora, ma a questo punto, vista la sordità (o la mancanza di argomentazioni) degli interlocutori, forse sarebbe il caso di sospendere questo accanimento terapeutico e lasciarla morire in pace. Basta con l’ossigeno e le cure palliative che allungano solo l’agonia e non preludono a nessuna guarigione. Teramo è refrattaria e strenuamente resistente ai cambiamenti, ce lo dice la sua storia. Allora forse è il momento di lasciarla andare come si fa con una persona cara malata terminale di cui si spera finiscano presto le sofferenze. Perché il cambiamento più necessario, come una nuova terapia, presuppone la forza d’animo di sostenerne la fatica e la sfida. Con una convalescenza di cui non si conoscono gli esiti proprio perché nuova, non sperimentata. La forza si alimenta con la speranza di raggiungere un obiettivo, di portare a termine un progetto, ma questo ancora non c’è. Non ci sono visioni di futuro. Non ne ha la classe politica, ridotta ad amministrare il quotidiano, con pochi spiccioli, legata da vincoli economici sempre più stretti, e non ne hanno gli elettori , altrettanto depressi. A chi votare? Gira che ti rigira la città è piccola, tutti parenti o quasi. Tutti ideologicamente e culturalmente uguali. O quasi.
E poi ne vale la pena? Dipende. Da chi rimane e dalla voglia e il coraggio di raccogliere il testimone e seguire“i garibaldini” verso il cambiamento che poi , se vogliamo, sta tutto in quel “quasi”.
Mira Carpineta