Al giorno d’oggi sentiamo sempre piu’ parlare di aggressività canina. I mass media diffondono notizie come “neonata uccisa dal cane di famiglia”, oppure “donna aggredita e sfigurata da un cane randagio mentre faceva footing”. Di questi e di molti altri casi analoghi siamo a conoscenza, ma di aggressioni feline verso l’uomo e altri animali abbiamo mai sentito parlare? Eppure sono altrettanto
numerosi e diffusi. Psicologi e sociologi hanno cercato di dare una definizione di “aggressività” a partire dagli anni ’60/’70, incontrando diverse problematiche. Prima fra tutte definire se in ogni caso di aggressione si può parlare di intenzione nel nuocere. Con il trascorrere degli anni non si è trovato un punto in comune e tutt’oggi si hanno diverse risposte. Qualcuno afferma che sia inscindibile, qualcun altro, invece, che sia di difficile valutazione. Possiamo dire che ogni comportamento che causa un danno alla libertà o all’integrità fisica e/o psichica di un terzo individuo è aggressione. Questa definizione è puramente descrittiva e non funzionale. Infatti non indica l’interpretazione della funzione dell’aggressione. Probabilmente quando un gatto aggredisce un potenziale predatore non ha l’intenzione di danneggiare la sua integrità fisica e psichica, piuttosto avrà l’intenzione di difendersi, quindi l’aggressione sarà la conseguenza di una risposta a un istinto di sopravvivenza. Perché un gatto è aggressivo? Molti studiosi si interrogano, ma non sembrano trovare un punto in comune. Sarà forse un comportamento innato, una reazione di difesa o ancora una conseguenza di una frustrazione? Probabilmente è tutto questo insieme. Con sicurezza sappiamo che un’aggressione è una sequenza comportamentale di atti che teoricamente possono essere suddivise in tre fasi: appetitiva (minaccia), consumatoria (attacco) e di appagamento (arresto). Alcuni studiosi fanno seguire a queste tre fasi una quarta detta periodo refrattario o di recupero, dove l’animale lentamente esaurisce l’eccitazione e torna ad avere un corretto recupero di sé. Altri studiosi, invece, includono questo periodo refrattario nella fase di appagamento. Ogni sequenza comportamentale è caratterizzata da messaggi chiari espressi dalla postura, dai vocalizzi e dalla mimica. Spesso accade che queste fasi non si susseguano nella loro naturalità e completezza, ma che siano destrutturalizzate o del tutto assenti. Il gatto può omettere la fase appetitiva e attaccare direttamente senza aver manifestato comportamenti di minaccia etologicamente corretti. È possibile che non ci sia una fase di arresto o che si intensifichi la fase consumatoria. Esistono diverse combinazioni alterate di queste sequenze comportamentali, e quando ne osserviamo una, sappiamo che non siamo più spettatori di un comportamento naturale ma psicopatologico. A causa della vastità delle classi dei comportamenti aggressivi, ci limiteremo ad elencarne alcuni nomi: aggressione da gioco, da molestia, in coalizione (mobbing, ganging), competitiva – sociale, da irritazione (da frustrazione, da dolore, da costrizione, gatto accarezzato-morsicatore, postcoito, antisessuale), sessuale, intrasessuale, per la gestione dello spazio, per la difesa dei gattini, critica e da paura, atipica (aggressioni generalmente associate agli stati patologici del gatto), appresa, da predazione, conflitti adulti-gattini (dello svezzamento, disciplinare, educativa), infanticidi. Quando il comportamento aggressivo diventa inopportuno rispetto al contesto e il gatto non riesce ad adattarsi al sistema in cui si trova, si parla di disturbi psicologici. Un padrone attento riconosce se l’aggressività del proprio amico è naturale o patologica e, se riuscirà a riconoscere la fase di minaccia (qualora questa sia presente), riuscirà anche a prevenirne l’attacco. Questo concetto di prevedibilità e prevenzione può essere esteso anche al mondo canino.