JUDY BOW di Annarita Petrino
Un uccellino si è posato cinguettando sul davanzale della finestra. Se non avesse cantato così forte, non mi sarei nemmeno accorta della sua presenza. La mia vista è sensibilmente peggiorata
rispetto a due giorni fa, quando sono stata ricoverata. Da allora, solo gli odori e i rumori mi comunicano ciò che accade intorno a me, ma i suoni si stanno facendo ovattati e forse domani non ci saranno più.
Il mio nome è Judy Bow. Quando avevo quindici anni sono rimasta coinvolta in un incidente stradale, che mi sarebbe costato la vita se mia madre non avesse usato tutta la sua influenza sociale ed economica per convincere un’equipe di medici a fare tutto il possibile per salvarmi la vita. E quando dico tutto, intendo tutto… mi hanno tenuta in sala operatoria per 12 ore, intervenendo su tutto il mio corpo e, in particolare sui miei polmoni, che erano già malati. Sono ricorsi a una tecnica sperimentale che loro chiamano “Rigenerativa” e i miei polmoni sono tornati a funzionare… Ma durano solo due mesi e quando essi volgono al termine ho bisogno di usare un respiratore per non soffocare e resistere fino alla rigenerazione successiva.
Ora ho diciotto anni e sono stata rigenerata tante di quelle volte che ormai ho perso il conto. Stanca di tutto questo mi sono rivolta a un legale per far causa ai miei genitori, Benjamin e Sarah Bow.
Arnold Stert è uno dei migliori avvocati della città e lavora per uno studio molto importante. Abbiamo dovuto fare molti incontri per definire al meglio i termini della causa, ma l’ultimo è quello che ricordo meglio. Quel giorno cercai invano un parcheggio nelle vicinanze dello studio, ma a quell’ora del mattino era praticamente impossibile. Odiavo dover uscire di casa con il respiratore, ma non avevo altra scelta. Non potevo permettermi un altro collasso, senza avere la certezza che non mi avrebbero rigenerata anche questa volta. Nel momento in cui scesi dall’auto sentii tutti gli sguardi su di me. La gente osserva con curiosità una ragazza con dei tubi ficcati nel naso e una bombola di ossigeno collegata a una macchina su un carrello. Ecco a cosa ero costretta…
Stert fu molto gentile. Ormai eravamo entrati in confidenza e nel suo ufficio mi sentivo completamente a mio agio.
“Prego Judy, accomodati. Mi dispiace averti fatta venire sin qui.” esordì
“Non preoccuparti. A che punto sei con la pratica?”
Lui esitò, poi disse: “Devo avvertirti, questa causa non sarà una passeggiata. Sei proprio sicura di voler procedere?”
“Sì, sono assolutamente decisa”.
“E i tuoi genitori? Sono in grado di affrontare il processo? Tutto questo potrebbe essere evitato. Sono sicuro che parlandogli… “.
“No! – lo interruppi secca – Ci ho già provato, ma è stato tutto inutile. Mi hanno promesso diverse volte di non rifarlo, ma poi… Dicono che non riuscirebbero a sopportare il peso della mia assenza! E io? Io invece devo sopportare tutto questo! – esclamai, indicando il respiratore – Questa volta voglio delle precise garanzie.”
“Judy… “.
“Non insistere! Voglio morire e tutto quello che ti chiedo è di costringere i miei genitori a lasciarmi riposare in pace. – feci una pausa. Me la stavo prendendo con lui, ma non era colpa sua se mi trovavo in quella situazione, così cercai di moderare i toni – I miei genitori hanno trasformato la mia vita in un incubo”.
“Capisco, procederò come da accordi, ma mi sento in dovere di avvertirti ancora una volta: non sarà affatto piacevole”.
“Sai che cosa non è piacevole? – risposi, alzandomi di scatto – Sentire il fiato farsi sempre più corto e sapere che la fine si sta avvicinando… Arrivederci”.
Lasciai in fretta l’ufficio di Stert, trascinandomi dietro il respiratore e strattonandolo ogni volta che le ruote si incastravano sul ciottolato. Avrei potuto usare uno di quei carrelli comandati a distanza, ma trascinarmelo dietro contribuiva a rendere la sua presenza più reale ed era una cosa di cui avevo bisogno. Il rumore prodotto dalle ruote era simile a quello di un vecchio modello di valigia chiamato trolley. Io, però, non stavo affatto partendo… o meglio, non per un viaggio piacevole.
Mi sentivo i nervi a fior di pelle e facevo fatica a respirare. Sapevo di dovermi calmare o di lì a poco sarebbero iniziate quelle insopportabili fitte di dolore al petto. Ero stanca… stanca di essere sospesa tra una vita che vita non era e una morte che veniva rimandata di volta in volta. Mi accasciai sulla prima panchina che incontrai e aspettai che il respiro tornasse a farsi regolare. Nel silenzio che mi circondava d’un tratto udii un suono di campane. Alzai lo sguardo, per individuarne la provenienza e vidi in lontananza il campanile di una chiesa. Un pensiero fugace mi attraversò la mente, quindi afferrai il mio telefono e composi automaticamente un numero.
“Pronto? Zia?” dissi, mentre l’emozione mi colorava le gote di rosso
“Judy! Che bello sentirti!”
La interruppi, scoppiando a piangere e dovettero passare alcuni lunghi minuti prima che riuscissi a balbettare qualche parola.
“Ti prego… vienimi a prendere.”
La macchina grigio perla di mia zia fece capolino all’orizzonte una mezz’ora dopo. Le lacrime si erano asciugate sul mio viso, lasciando lunghi solchi lungo le guance.
“Oh Judy!” mormorò mia zia, tirando fuori un fazzoletto di stoffa di vecchia foggia e asciugandomi le lacrime. Quindi prese il mio telecomando e digitò il codice che corrispondeva all’indirizzo della sua abitazione. La mia macchina vi sarebbe giunta prima di noi. Mi aiutò a salire sulla sua vettura e sistemò il respiratore ai miei piedi, quindi si mise alla guida rispettando per tutto il tempo il mio silenzio.
Quando arrivammo davanti alla sua casa, lasciò che mi trascinassi dentro e andassi a prendere posto in salotto, davanti al camino la cui fiamma olografica scoppiettava allegra. Poi si mise al lavoro in cucina, per arrivare poco dopo con una bella tazza di cioccolata calda con panna, l’unica cosa che avesse il potere di tirarmi su in quei momenti che stavano diventando sempre più frequenti. Alla fine si sedette davanti a me e attese.
Adelina Connor, questo era il suo nome, era la sorella più grande di mia madre. Era rimasta vedova cinque anni prima e aveva categoricamente rifiutato di risposarsi, dicendo che Thomas era l’unico uomo che avesse mai amato. Il loro matrimonio non era stato allietato da figli, ma, a differenza di mia madre, lei non era voluta ricorrere all’inseminazione artificiale. Anche per questo per lei io ero qualcosa di più di una semplice nipote.
Finii di bere la cioccolata e posai la tazza sul tavolino lì di fianco.
“Grazie.” mormorai
“Sai che puoi chiamarmi quando vuoi, Judy.”
“Sono stata dall’avvocato.”
“Sai come la penso.”
Era vero. Avevo assistito in diretta alla sue discussioni animate con mia madre, che la incolpava di avermi messa contro di lei, ma erano tutte sue fantasie. In realtà mia zia cercava solo di riportare la pace tra di noi, ma i suoi tentativi erano stati vani. Anche se soffriva nel vedermi ridotta in quelle condizioni, non condivideva la mia scelta.
“Cosa dice Stert?” chiese infine
“Oh! Lui pensa che questo processo non sarà facile, né per me, né per i miei genitori. Ha anche provato a convincermi a mollare, ma io voglio andare fino in fondo.”
“Tu come stai?”
“Come vuoi che stia? Ormai manca poco a un nuovo collasso dei polmoni. Sono così stanca…” mormorai, mentre gli occhi mi si riempivano nuovamente di lacrime
Mia zia mi abbracciò e disse: “Non temere bambina mia. Abbi fede, il Signore non ti abbandonerà.”
Scoppiai a piangere tra le sue braccia.
Quando lasciai la casa di mia zia era pomeriggio inoltrato. Un lauto pranzetto aveva contribuito a tirarmi su di morale insieme alle sue parole. Una cosa che ammiravo tanto in lei era la sua fede… Fede in qualcosa in cui io non avevo mai osato credere.
Mentre stavo tornando a casa, il mio telefono emise il segnale di messaggio. Era Stert che mi comunicava che l’udienza era stata fissata per la settimana successiva, l’8 ottobre di quell’anno, il 2045.
Rincasai come al solito dal retro della villa dei miei genitori. Da quando mi ero rivolta a un avvocato, vivevo nella dependance e non avevo più contatti con i miei. Non avevamo più niente da dirci. Ero sicura che il loro avvocato li avesse già messi al corrente di tutto.
Quell’8 di ottobre era un mercoledì piovigginoso e così umido, che la sensazione di bagnato ti penetrava fin dentro le ossa. Non sapevo se la difficoltà a respirare così particolarmente accentuata quella mattina fosse dovuta all’umidità, all’agitazione o semplicemente al fatto che i miei polmoni avevano bisogno di una nuova rigenerazione.
Arrivai in tribunale puntuale alle nove del mattino, accompagnata dalla mia fedele bombola dell’ossigeno. Quando entrai in aula, avvertii su di me lo sguardo penetrante e sofferente di mia madre. Papà le stava seduto accanto, ma non mi guardava. Erano mesi che lui non aveva più il coraggio di farlo. Individuai Stert e andai a sedermi al suo fianco. La giuria era alla nostra destra, sei uomini e sei donne, cui era affidato il compito di decidere della mia vita… Ben presto l’aula si riempì di gente e arrivò anche mia zia che prese posto dietro di me.
Quando entrò il giudice, un uomo alto sulla sessantina, ci alzammo in piedi. “Causa civile n. 320 – disse – Judy Bow contro Benjamin e Sarah Bow. La parola all’avvocato Stert.”
Stert si alzò in piedi: “Grazie, vostro onore. – quindi si avvicinò alla giuria – Signori, quest’oggi siete chiamati a prendere una decisione difficile, ma di cruciale importanza. La mia assistita, la signorina Judy Bow, che vedete seduta qui al mio fianco, tre anni fa è stata vittima di un incidente stradale che avrebbe dovuto esserle fatale, ma che non lo è stato grazie all’uso della Tecnica Rigenerativa sui suoi polmoni. Tale utilizzo, però, ha condannato la mia cliente a sottoporsi a rigenerazione polmonare ogni due mesi, una parte dei quali li passa attaccata a un respiratore. Judy Bow non fa questo di sua spontanea volontà, ma costretta dai suoi genitori. Al momento dell’incidente, infatti, aveva 15 anni e non poteva decidere per se stessa. Ora ne ha 18 ed è qui davanti a questa corte e a voi, signori giurati, per chiedere che la sua vita giunga a un naturale termine, quello che avrebbe dovuto raggiungere il giorno dell’incidente.
“So che tutti voi siete stati messi al corrente delle leggi che regolano la Tecnica Rigenerativa. Si tratta di una tecnica sperimentale che la Commissione Mondiale per la Salute non ha ancora riconosciuto come valida. La legge 50 del 2044 ne riconosce l’utilizzo su cavie animali e ammette la sperimentazione su soggetti umani adulti, che abbiano firmato un consenso. Come ho detto prima, tale consenso nel caso di Juy è stato espresso dai genitori, perché all’epoca dei fatti lei era minorenne. Non solo, si è trattato del primo caso di utilizzo su un soggetto in pericolo di vita, che l’uso di questa tecnica avrebbe potuto salvare e la legge non si è ancora pronunciata in merito. Così la cosa è andata avanti per tre lunghi anni senza alcuna tutela legale che oggi la mia cliente, invece, pretende.”
Stert tacque e tornò a sedersi al mio fianco, mentre io osservavo i volti dei membri della giuria. Avevo notato che, man mano che il mio legale procedeva nella sua esposizione, il loro modo di guardarmi mutava.
In quel momento si alzò in piedi Farrell, l’avvocato dei miei genitori, un uomo alto ma decisamente sovrappeso, con i capelli spruzzati di bianco e un atteggiamento molto sicuro di sé. Era famoso per essere il più grande esperto di diritto genetico e faceva parte dello stuolo di avvocati che lavorava per la Genetic Solutions, l’azienda di papà. Mi lanciò un’occhiata prima di iniziare a parlare.
“Signori, per inquadrare questa storia nel modo migliore bisogna partire dall’inizio. Benjamin e Sarah Bow hanno atteso per anni un figlio e, quando ormai non ci speravano più, è arrivata Judy. Hanno quindi considerato fin dal primo momento questa creatura come un dono del cielo. Quell’incidente rischiava di far loro perdere la loro unica ragione di vita.
“L’intento di questo processo è quello di decidere se sia stato giusto o meno, da parte di due genitori, esprimere la volontà di tenere in vita la propria unica figlia. Vi supplico di domandarvi quanti di voi, al posto di queste persone, non si sarebbero comportati allo stesso modo, oppure di chiedervi quante volte ciascuno di noi non abbia desiderato di avere la possibilità di fare qualcosa di concreto per salvare la vita di un famigliare o un amico scomparso. I coniugi Bow avevano questa possibilità e hanno deciso di sfruttarla. In questa sede si tratta, quindi, di appurare se questo sia giusto o meno.”
Farrell si sedette e il giudice prese la parola: “Grazie, signori. L’avvocato della signorina Bow può chiamare i suoi testimoni.”
“Grazie, vostro onore. – disse Stert – Vorrei che venisse a deporre il dottor Alfred Lang.”
L’uomo raggiunse il banco, dove pronunciò il rituale giuramento.
“Dottor Lang, di che natura sono i suoi rapporti con i coniugi Bow?”
“Sono un medico genetista e sono stato anche il ginecologo della signora. Nel 2027 Sarah Bow venne da me per un consulto sull’inseminazione artificiale. Lei e Benjamin non potevano avere figli e volevano fare un tentativo, prima di prendere in considerazione l’ipotesi dell’adozione.”
“Quindi è grazie al suo intervento che la signora Bow riuscì a rimanere incinta?”
“Sì.”
“Molto bene. Ci dica, dottore, nella pratica della fecondazione quale prassi è stata utilizzata?”
L’uomo tradì un certo disagio: “Proposi la tecnica Oddins e i signori Bow acconsentirono.”
“Ce ne parli, dottore, che differenza c’è rispetto alla vecchia pratica?”
“La tecnica Oddins permette la manipolazione del codice genetico del nascituro, per escludere malattie ereditarie, handicap fisici e mentali.”
“Se è come dice perché Judy nacque con un’insufficienza respiratoria con cui ha dovuto convivere fino al giorno dell’incidente?”
L’uomo fissò gli occhi al suolo: “Si trattò di uno sfortunato errore. I coniugi Bow fecero causa all’Ospedale e furono risarciti per un totale di un milione di dollari.”
“Fu un suo errore?”
“No, di un membro della mia equipe. Fece confusione durante la programmazione del codice genetico. È stato radiato dall’Albo.”
“Dottor Lang,” continuò Stert inflessibile “è stato sempre lei a occuparsi della rigenerazione polmonare di Judy, vero?”
“È così.” affermò il medico pallido in viso e con gli occhi sempre rivolti al suolo
“E non c’era la possibilità di rigenerare, o se vogliamo, di generare dei polmoni sani?”
“Ha già sottolineato lei la differenza, avvocato. Stiamo parlando di una tecnica rigenerativa, cioè che rigenera ciò che trova già. Non escludo che in futuro…”
“E un trapianto?” lo interruppe bruscamente Stert “Perché non avete mai preso in considerazione l’ipotesi di un trapianto prima o dopo l’incidente?”
“Per via della tecnica Oddins con la quale è stata concepita Judy. L’utilizzo di tale procedura esclude a priori la possibilità di trapianti di organi, che sarebbero di certo rigettati dall’organismo.”
“Un’ultima domanda, dottor Lang. I polmoni di Judy sono già stati rigenerati un buon numero di volte. Vediamo… in tre anni, circa 18 volte. Per quanto tempo ancora potranno essere rigenerati?”
“Fino a quando sarà possibile.”
“Cioè?”
L’uomo emise un lungo respiro prima di rispondere. “Si tratta ancora di una tecnica in fase sperimentale, avvocato. Quei polmoni potranno essere rigenerati fino a quando sarà possibile, ma non sono in grado di dare una data precisa.”
“Questo vuol dire che arriverà il giorno in cui non potranno più essere rigenerati.”
“Esatto.”
“E lei non è in grado di dire quando questo avverrà.”
“Esatto.” ripeté meccanicamente il medico
“Potrebbe essere tra un anno, tra sei mesi oppure alla prossima rigenerazione.”
“Esatto.”
Stert fissò l’uomo intensamente, prima di dire: “Grazie, dottor Lang, non ho altre domande.”
Fissai a lungo l’uomo che mi aveva condannato a vivere in quell’inferno. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Lui mi guardava come se mi vedesse per la prima volta, eppure il suo volto ce lo avevo davanti agli occhi ogni volta che andavo in Ospedale per la rigenerazione. Il mio respiro si fece più affannoso, l’ossigeno sembrava non bastarmi.
Farrell si alzò per controinterrogare il teste. “Dottor Lang, perché la Tecnica Rigenerativa non è stata ancora accettata dalla Commissione Mondiale per la Salute, pur avendo dato degli ottimi risultati sui soggetti che si sono offerti volontari?”
“Ci sono ancora molte remore di natura etica, morale e anche religiosa per quanto assurdo possa sembrare. La Tecnica Rigenerativa rappresenta un grande passo avanti nella storia della scienza, tuttavia si è diffusa una sottile linea di pensiero che mina alla base la fiducia in essa.”
“Ce ne parli.”
“Secondo alcuni pensatori, ma anche secondo alcuni medici, rigenerare dei tessuti equivale a intervenire in maniera radicale nel corso naturale della vita, ma a mio avviso questa tecnica non è diversa dalle medicine che somministriamo per la cura delle malattie. Sui soggetti volontari è stato dimostrato che detta tecnica rigenera in parte i tessuti invecchiati, ritardandone l’invecchiamento.”
“E che mi dice di Judy Bow?”
“Il suo è un caso unico. Come ha detto l’avvocato Stert non si era mai applicata questa tecnica per salvare una vita. Il problema di Judy non è la rigenerazione polmonare, ma l’insufficienza respiratoria da cui è affetta sin dalla nascita.”
“Come reagirono i genitori al momento dell’incidente?”
“Come ogni genitore che rischia di perdere un figlio, l’unico per di più. La signora non voleva rassegnarsi.”
“Fu lei, dottore, a proporre la Tecnica Rigenerativa?”
“No, furono i Bow a chiedermelo in maniera insistente. Pagarono con i soldi del risarcimento ricevuto alla nascita di Judy.”
“Crede di aver sbagliato ad acconsentire, dottore?”
“Scusi?”
“Guardi Judy: non crede che sarebbe stato meglio lasciarla morire?”
Lang mi fissò per un lungo istante e poi, confuso, rispose: “Non spetta a me giudicare cosa sarebbe stato opportuno e cosa no, ma posso dirle questo, avvocato. Quando la signora mi chiese di intervenire era disperata, sconvolta. Piangeva a dirotto, aggrappata al mio camice. Diceva di non poter vivere senza di lei e che sarebbe morta di crepacuore. La ragazza aveva solo quindici anni al momento dell’incidente… Chi non vorrebbe dare alla propria figlia una seconda possibilità?”
“Grazie, non ho altre domande.”
Fissai Lang e Farrell mentre tornavano ai loro posti e mi accorsi di aver tenuto i pugni stretti fino a quel momento. La pelle era diventata livida. Mi soffermai ad osservare i giurati. Sembravano molto scossi. Stert chiese che sul banco dei testimoni salisse mia madre. Ero a conoscenza di questa mossa; ne avevamo discusso insieme e avevamo deciso che era giusto chiamarla a deporre. Solo lei però, perché mentre mio padre non si pronunciava più da mesi, lei era ancora convinta che tutto questo fosse giusto.
Mia madre ha cinquantadue anni, è una persona mite e tranquilla che mi ha sempre amata molto. Ho di lei dei dolci ricordi, ma in quel momento non riuscivo a provare nulla di diverso che un profondo risentimento per la sua ottusa ostinazione a volermi mantenere in vita.
“Buongiorno, signora Bow. Mi rendo conto che per lei questo deve essere un momento assai difficile. Se la sente di rispondere ugualmente alle mie domande?”.
Mia madre sembrava un’altra persona. Aveva gli occhi gonfi per il pianto, ma nonostante questo ostentava un atteggiamento sereno. Teneva i pugni chiusi, appoggiati in grembo e li stringeva così forte che le nocche le erano diventate bianche.
“Proceda pure, avvocato.”
“Mi dispiace costringerla a subire tutto questo, ma sono convinto che sia per il bene di sua figlia.”
Lei non controbatté a quell’affermazione e si limitò a fissarmi.
“Signora, non crede che siamo qui anche per il bene di sua figlia?”
“Che idea può avere lei di quale sia il bene per mia figlia?”
“Vuole dircelo lei, allora?”
“So cosa sta cercando di dimostrare: che la colpa è mia se Judy è in queste condizioni, ma io ritengo che la tutela della vita umana sia un valore primario e ogni singola esistenza costituisca un bene assoluto che va salvaguardato in tutti i modi. Se poi vuole che parli di mia figlia, prima che nascesse ho pregato tanto Dio perché mi concedesse la gioia della maternità e alla fine sono stata accontentata. Non ho certo intenzione di arrendermi adesso.”
“Ha mai pensato a cosa desidera veramente Judy?”.
“Mia figlia è troppo giovane e non è in grado di valutare quello che è meglio per lei; spetta quindi a mio marito e a me, in qualità di genitori, decidere al suo posto”.
“Perché crede che Judy voglia morire?”
“Per punirmi. Non so perché mi odia così tanto, dal momento che ho sempre voluto il meglio per lei. Sarà un atteggiamento adolescenziale.”
“Come crede che si senta sua figlia in questo momento?”
“Onestamente non lo so. Non mi parla da mesi e lei dovrebbe saperlo, dal momento che comunica con me solo attraverso di lei, avvocato! Non la capisco… Non la capisco più! È viva! Questo fatto dovrebbe bastare a compensare gli aspetti negativi.”
“Allude al fatto di essere costretta a vivere praticamente in simbiosi con una bombola di ossigeno un mese sì e uno no, oppure al fatto di sentire i suoi polmoni vicino al collasso…?”
“Obiezione!” esclamò Farrell
“Ho terminato, vostro Onore.” concluse Stert
L’avvocato dei miei genitori prese a sua volta la parola: “Signora Bow, cosa ha provato dopo l’incidente di sua figlia?”
“Mi sentivo come in una gabbia dalla quale non c’era via d’uscita.”
“Com’è arrivata alla decisione di ricorrere alla tecnica rigenerativa?”
“Mio marito me ne aveva già parlato in passato. Lavora per la Genetic Solutions, che è di fatto l’azienda alla quale si devono le scoperte su questa tecnica. Quando Judy ha avuto quell’incidente la mia decisione è stata immediata. Ne ho parlato a mio marito e lui ha acconsentito. Judy era giovane e così bella…”
“In che modo ha reagito Judy quando si è svegliata?”
“Quando le abbiamo spiegato quello che le era accaduto era felicissima! Mi ha detto che morire è una cosa terribile e che la vita è meravigliosa. Poi mi ha buttato le braccia al collo, mi ha stretta forte e mi ha detto che era orgogliosa di avere una madre così in gamba. Adesso, invece, mi odia e mi sta facendo tutto questo.”
“Grazie, per me basta così. Può accomodarsi, signora”.
“Bene,” disse il giudice “ora faremo una pausa. Riprenderemo alle 14.00 di questo pomeriggio.”
L’aula si svuotò rapidamente. Stert voleva offrirmi il pranzo, ma io rifiutai. Volevo restare da sola e meditare le parole di mia madre. Perché non capiva? Avevo cercato di spiegarglielo tante volte, ma senza successo. Non riusciva a uscire dalla sua sfera di egoismo e venirmi incontro. Tra noi, ormai, c’era un altissimo e invalicabile muro e questo era l’aspetto peggiore di tutta quella maledetta vicenda.
Sentii una mano stringermi la spalla e fui consapevole di una presenza amica. Mia zia era rimasta seduta al suo posto dietro di me.
“Ti va di fare due passi, Judy?”
Annuii stancamente.
Lasciammo il tribunale sotto il sole cocente di mezzogiorno e ci dirigemmo verso il parco antistante. Ci fermammo a uno dei pochi chioschetti rimasti che vendevano panini caldi e li gustammo camminando.
“Perché la mamma si ostina a non capire?” chiesi
Zia Adelina sorrise. “Cosa dovrebbe capire esattamente Judy? Che sua figlia desidera morire?” lo disse con tono calmo e per niente tagliente, eppure quelle parole mi fecero male. “Tu e lei siete più simili di quanto pensi. Tua madre è una donna testarda, esattamente come te. Ti ha desiderata a tal punto da volerti ad ogni costo.”
“E tu perché non hai desiderato allo stesso modo un figlio tuo e dello zio Thomas?”
“Perché io e tuo zio avevamo molta fiducia in Dio e sapevamo accettare quello che ci dava come anche quello che non ci dava, in questo caso un figlio.”
“In quell’aula mamma ha detto di aver pregato tanto Dio per avermi e alla fine è stata accontentata. Io, dunque, sono la risposta di Dio alle preghiere di mia madre?”
“Questa non è una domanda alla quale è facile rispondere. Tua madre con la sua scelta è come se si fosse voluta mettere al di sopra di Dio, ma questo non significa che Lui non ti ama o che non abbia pensato a te come Sua figlia.”
Tacqui per un istante, dopodichè indicai il respiratore e dissi: “Dio ama in questo modo?”
Zia Adelina mi guardò e disse: “Dio ama sempre. Anche nella sofferenza più acuta e incomprensibile. Non è stato Lui a causarti questa sofferenza, ma ti aiuta a sopportarla e sono certa che di questo sei consapevole.”
Era la risposta migliore che potesse darmi.
Camminando eravamo giunti nei pressi di una piccola chiesa.
“Entriamo?” chiesi
“Va pure. Io ti aspetto qui.”
Mi sorpresi della sua risposta, convinta che avrebbe accettato di accompagnarmi ed entrai da sola con una certa riluttanza.
L’interno della chiesa era illuminato dalla luce che filtrava dalle finestre colorate. Granelli di polvere roteavano nel vuoto e tutto intorno era silenzio. Si udiva solo il mio respiro affannoso. Non era la prima volta che mettevo piede in una chiesa. Ci avevo già provato altre volte a mettermi in contatto con Lui e lo avevo fatto con diversi stati d’animo, piangendo, supplicando, arrabbiandomi, urlando, tacendo e mi era sempre sembrato di non ottenere alcuna risposta. Eppure non riuscivo a smentire le parole di mia zia. Sapevo che in qualche modo Lui mi aiutava ad andare avanti. Non so come lo facesse di preciso, ma il solo fatto di avere le braccia di zia Adelina tra le quali piangere mi aiutava tantissimo.
Raggiunsi i primi banchi e mi sedetti, fissando il grande Crocifisso, che campeggiava dietro l’altare. Osservai a lungo quel corpo che vi era appeso e che era tutto martoriato. Quello era Gesù, il Figlio di Dio che era morto in croce. Il mio fiato per un attimo si dimezzò e temetti di soffocare. Ebbi paura, perché in quelle condizioni non sarei riuscita a raggiungere la porta e ad avvisare mia zia. Sarei morta lì… Come? Avevo paura di morire? Perché poi? Non era esattamente quello che volevo?
L’aria tornò in circolo e mi accorsi che per tutto il tempo non avevo staccato gli occhi dal Crocifisso.
Le parole mi uscirono spontanee: “Tu sai quello che provo. Sai come mi sento, perché anche a te su quella croce ti è mancato il fiato. L’hai sentito farsi sempre più corto, fino a quando non è finito completamente…”
Rimasi lì a parlarGli per svariati minuti, rendendomi conto che in tutte le volte precedenti non gli avevo mai parlato. Quando finalmente tacqui, mi sentivo esausta ma confortata, perché c’era qualcuno che prima di me ci era già passato. A me gli uomini mi avevano appesa a una croce sin dalla nascita… questo mi avevano fatto gli uomini in nome della loro scienza.
Uscii da quella chiesa e tornai al tribunale insieme a mia zia Adelina, alla quale, però, non raccontai nulla.
Quando arrivammo trovammo Stert che ci aspettava davanti all’ingresso dell’aula. Non appena ci vide ci venne incontro e ci disse che l’udienza era stata rinviata a data da decidersi. Il giudice aveva avuto un improvviso malore che lo aveva costretto a un ricovero d’urgenza in ospedale. La notizia mi cadde addosso come un macigno. Stert stava ancora parlando e spiegando la procedura in quei casi, ma le sue parole si fecero d’un tratto lontane, assumendo un suono ovattato. Il respiro mi si interruppe all’improvviso. Più tentavo di respirare più il fiato moriva in gola. Vidi mia zia piegarsi su di me e aprire la bocca…
Riaprii gli occhi a fatica e riconobbi all’istante il colorito marcio delle pareti dell’ospedale.
“Oh Judy! Ti sei svegliata, grazie a Dio!” disse la voce di mia zia
Mi girai a fatica verso di lei. I tubi del respiratore mi impacciavano i movimenti: “Che è successo?”
“Hai avuto una specie di collasso, secondo il medico dovuto allo stress che ti ha causato la notizia del rinvio.”
“Che altro ha detto il medico?”
“Oh, non c’è da preoccuparsi. I tuoi polmoni reggeranno… Devi solo cercare di stare tranquilla.”
Tornai a chiudere gli occhi, sperando che sopraggiungesse il sonno. Non volevo pensare a niente…
Mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte. Il respiro era affannoso ma sufficiente, anzi lo sentivo insolitamente resistente. Cercai di girarmi ma i tubi erano collegati al letto e dunque molto corti. Li staccai dalle narici con uno strattone deciso, quindi nella semioscurità della stanza cercai il mio respiratore.
Scesi dal letto e mi affacciai nel corridoio: tutto tranquillo non c’era nessuno. Avevo bisogno di sgranchirmi le gambe, quindi presi a passeggiare. Quell’ala dell’ospedale era molto vasta e il corridoio svoltava in un’altra area in cui non ero mai stata. A un tratto mi accorsi di una porta socchiusa dalla quale filtrava una luce tenue. Le porte delle altre stanze erano tutte chiuse e al buio. Mi avvicinai seguita dal lieve cigolio del respiratore.
Mi affacciai all’uscio e capii di trovarmi nella cappella. La luce era quella delle lampade votive. Sospirai e feci per andarmene, quando qualcosa dentro di me mi spinse ad aprire ancora di più la porta e ad entrare. Uno strano senso di pace si impadronì di me, quando mi lasciai cadere su uno dei banchi e volsi lo sguardo al crocifisso in metallo posto di fianco all’altare.
Sentii allentarsi la tensione che fino a quel momento aveva attanagliato i miei polmoni. Desideravo che resistessero fino all’udienza, fino a quando questo incubo avrebbe avuto fine… Incubo… che brutta parola per definire una vita, un’esistenza eppure, non era forse così? Potevo negarlo? Potevo…
Una strana commozione mi riempì gli occhi di lacrime facendo salire dal fondo delle viscere un calore mai provato prima. Cos’era mai? Sentii di essere molto stanca. Stanca di pormi degli interrogativi ai quali non c’era risposta. E se c’era io non riuscivo a trovarla facilmente e dunque ero stanca di cercare… così come ero stanca di racimolare l’aria dal fondo del respiratore…
Basta!
Quelle parole così perentorie risuonarono all’improvviso nel mio cuore, dando il via a tutta una serie di nuovi pensieri. Basta con l’autocommiserazione, basta lamentarsi, basta dare la colpa agli altri, basta dare la colpa a Dio…
Sono viva… è un dato di fatto. Da questo devo partire.
Il guizzare delle lampade votive attirò la mia attenzione. Fiamma viva all’interno di un contenitore di plastica. Fiamma viva che si alimenta dell’aria che entra da minuscoli fori. Aria… fuoco… vita. E senza aria, niente vita.
L’udienza venne fissata il 12 ottobre alle 14.
All’ingresso del giudice l’aula cadde nel silenzio generale. Stert si alzò in piedi, chiamato dal giudice e poi mi guardò. Era arrivato il mio turno di testimoniare, ma ebbi l’impressione che avesse ancora qualche dubbio. A dire la verità non era mai stato completamente d’accordo sull’idea di farmi testimoniare, ma io ero stata irremovibile: il processo l’avevo voluto io e avevo il diritto di parlare e di spiegare le mie ragioni.
Annuii e lui disse: “Chiamo a deporre la signorina Judy Bow”.
Mi alzai a fatica. I miei polmoni ormai erano quasi arrivati al capolinea. Quella mattina avevo assunto una dose massiccia di farmaci per costringerli a non cedere, per darmi il tempo di parlare, ma avvertivo che l’effetto dei medicinali stava ormai terminando.
Afferrai il carrello del respiratore e mi mossi barcollando. Stert si offrì di aiutarmi, ma io rifiutai. Ce l’avevo sempre fatta da sola. Ce l’avrei fatta anche quella volta. Raggiunsi il banco dei testimoni e mi lasciai cadere sulla sedia. Avevo tutti gli occhi puntati addosso e, nel silenzio assoluto che regnava, si sentiva solo il mio respiro.
“Salve, Judy, è tutto a posto?” mi chiese Stert, tentando di allentare la tensione e di mettermi a mio agio.
“Si, grazie. – dissi con un filo di voce – Per quanto sia possibile nella mia condizione”.
“Qual è il problema? Il suo respiratore ha qualche difetto?”
“Al contrario è un piccolo gioiello. Lui pompa ossigeno ai mie polmoni in continuazione”.
“E allora perché fa così fatica a respirare?”
“Oggi è il 12 di ottobre e l’ultima volta che i miei polmoni sono stati rigenerati era il 12 agosto. Già all’avvicinarsi dello scadere dei due mesi, comincio ad aver bisogno dei respiratore e tra non molto i miei polmoni dovranno essere rigenerati nuovamente.”.
“Come fa a esserne sicura?”.
“Sulla base di tutte le precedenti esperienze. I miei polmoni durano massimo due mesi, poi arriva il collasso e tutto ricomincia daccapo.”
“E’ giusto dire che è vicina alla morte?”
“Sì.”
“Come ci si sente nella sua situazione?”
“E’ una domanda cui non è facile rispondere. Le prime volte ricordo di aver avuto molta paura, ma ora forse è perfino peggio, perché non riesco a provare più nulla.”
“Chi l’accompagna di solito in Ospedale?”
“Mia madre, ma poi aspetta fuori della stanza. Non vuole assistere, dice che per lei è troppo doloroso.
“Che cos’ha pensato quando si è svegliata dopo essere stata rigenerata per la prima volta?”
“È stato molto strano perché, al risveglio, mi ricordavo il momento dell’incidente e la convinzione che sarei morta. Mi sentivo come se avessi dormito per qualche ora e c’era la mamma accanto a me. Lei mi ha spiegato quello che era successo. Ero felice… felice del fatto che mi fosse stata concessa una seconda possibilità. Nel giro di qualche settimana, però, ho dovuto ricredermi.”
“Che cosa vuole chiedere a questa giuria Judy?”
Esitai. Mi ero preparata per giorni quel discorso. Sapevo esattamente cosa dire e con quale tono, eppure non mi uscirono le parole che avevo in mente: “Io non sono una cavia. A volte mi sembra di essere più simile agli animali sui quali sperimentano questa tecnica, che ad un essere umano perché io non ho firmato alcun consenso. Inoltre non sono una di quelle persone volontarie che non vogliono invecchiare. Questa tecnica a me non ha portato alcun beneficio. Ha solo trasformato la mia vita in un… in un incubo. Prima dell’incidente ero affetta da insufficienza respiratoria, ma avevo imparato a conviverci. Assumevo dei farmaci e la mia vita era più o meno normale. Certo non potevo fare tutto quello che facevano le ragazze della mia età, ma non mi importava. Avevo accettato la cosa. Ora, invece, ogni due mesi mi ritrovo a un passo dalla morte… eppure continuo a vivere, ma questa non è vita. Mi si costringe a vivere, come mi hanno costretta a nascere!”
Un mormorio si levò dalla folla presente. I giurati si guardarono l’un l’altro confusi e il giudice dovette ristabilire l’ordine.
“Grazie, ho terminato”.
Stert lasciò la parola a Farrell, che venne verso di me con la sua andatura dinoccolata. Mi guardò fiero. Era molto sicuro di sé. Forse credeva di avere davanti una giovane donna insicura. Ma si sbagliava…
“Come si definirebbe, signorina Bow?”
“Come scusi?”
“Mi è capitato a volte di sentire il termine “rigenerato”. Lei si definirebbe una rigenerata?”
“Non so cosa si intenda esattamente con questo termine, ma se identifica delle persone sulle quali è stata usata la tecnica rigenerativa, allora sì, mi definisco una rigenerata.”
“Bene, ma proprio una rigenerata oppure una miracolata?”
Lo guardai stupita, chiedendomi se stesse scherzando o meno, ma dal suo sguardo capii che non si trattava di uno scherzo. Le sue parole, tuttavia, andarono giù come sassi e si depositarono in fondo alla mia anima.
“Perché sa,” continuò “molti considererebbero quello che le è accaduto un miracolo. Insomma lei ha avuto un incidente mortale eppure è qui, in quest’aula di tribunale a parlare… Non solo, è qui per dire che in quell’incidente avrebbe preferito morire.”
“Obiezione!” urlò Stert, ma subito dopo strabuzzò gli occhi e scattò in piedi.
Ero diventata pallida e riuscivo a emettere solo dei rantoli soffocati. Stert fece un passo verso di me, ma con un gesto gli intimai di rimanere dov’era. Chiusi la bocca e feci dei lunghi e profondi respiri con il naso, respirando avidamente l’ossigeno della bombola, che prestò tornò in circolo.
“Avvocato… io sto per morire.” ripresi, scandendo bene le parole “I miei genitori non lo permetteranno e so che lo faranno per amore. Sono persuasa che mi vogliano bene, ma vorrei che me lo dimostrassero in un altro modo. Non è giusto accanirsi in questo modo contro di me. Io voglio che la mia vita giunga al suo naturale termine e non che venga costretta ad andare avanti. Non è per il respiratore, non è per la sensazione di soffocamento, nemmeno perché non so fino a quando tutto questo andrà avanti. È solo perché io sono qui per un capriccio e sempre per un altro capriccio vengo mantenuta in vita. Ma forse Dio aveva altri piani per me. Io vorrei solo conoscerli e per farlo ho bisogno di poter decidere della mia vita.”
“Non ho altre domande”, concluse Farrell visibilmente scosso.
Non sento più cantare l’uccellino… forse è volato via. C’è qualcuno con me, che mi tiene la mano. La riconosco dal profumo: è mia madre. Tra le lacrime mi sussurra: “Perdonami!”
“Sai che l’ho già fatto mamma. Non ti ho mai odiato. Volevo solo che tutto questo avesse fine.”
“Tu sei la cosa più bella che mi sia capitata nella mia vita. Perdonami se non sono riuscita a rassegnarmi alla tua perdita.”
Rimango in silenzio per raccogliere il poco fiato che mi rimane. Nonostante i problemi alla vista riconosco la forma del Crocifisso appeso al muro. Torno in un attimo a quella chiesa e a quel dialogo, a tutta la sofferenza della mia vita. Sento che non pesa più come prima, sento qualcuno che regge al posto mio quel pesante legno e che mi dice: “Puoi farcela.”
E so che è vero, so che posso. Forse era proprio questo il piano di Dio nella mia vita. Venire al mondo e soffrire tanto, ma accettare la sofferenza e andare avanti perché qualcuno lo aveva già fatto prima di me.
Mi lascio andare sul cuscino e chiudo gli occhi. La giuria ha deliberato in mio favore, ma ora attendo l’arrivo del dottor Lang e una nuova rigenerazione. Dentro di me avverto una grande pace, so che quando mi sveglierò lo farò con un nuovo senso da dare alla mia vita.
FINE