Nel mese di marzo si susseguono ormai numerose iniziative che riguardano la condizione delle donne. Vale dunque la pena proporre qualche riflessione sui dirittidelle donne nel mondo, sul percorso che hanno compiuto e su quello che resta ancora da compiere. Nei trent’anni trascorsi dalla prima Conferenza mondiale delle donne (Città del Messico, 1975) la riflessione ha significativamente allargato il suo orizzonte. Si è così gradualmente acquisita conoscenza della molteplicità dei contesti
politici, socioeconomici e culturali nei quali quei diritti sono violati, ma anche della variegata rete associazionistica che si mobilita contro le violazioni e promuove l’agency femminile. La tensione positiva verso il superamento di una prospettiva eurocentrica nella difesa dei diritti delle donne non è tuttavia priva di rischi, soprattutto quando viene riproposta negli spazi del dibattito pubblico gestito dai media e finisce per essere oggetto di inevitabili – ma non di rado irrispettose – semplificazioni. Uno dei pericoli in cui si incorre è quello di attribuire il mancato riconoscimento della piena dignità dei soggetti femminili solo ai paesi “altri”, dando invece per scontato che tale riconoscimento è già stato definitivamente conseguito nelle “nostre” società. A ben guardare si tratta di una convinzione tanto rassicurante quanto assai poco fondata. Basti pensare a un dato macroscopico come quello della sottorappresentanza femminile negli organi istituzionali. Sullo scenario europeo solo nei paesi nordici la percentuale di donne elette in parlamento si avvicina (Finlandia, Norvegia) o tocca (Svezia) il 50%; i dati di questa regione restano però un’eccezione, al di là della quale i risultati migliori si registrano su quote intorno al 35% (Spagna, Belgio, Austria). Procedendo oltre, per paesi come l’Italia (17%), la Francia e la Grecia si scende a valori inferiori al 20%. Altrettanto signifi cativo può essere un rapido sguardo alla sfera economica. Una ricerca realizzata da Unifem e pubblicata nel 2005 ha messo in evidenza la concentrazione del lavoro femminile nel settore informale – ovvero quello caratterizzato da maggiore precarietà e più esigui guadagni – soprattutto nelle aree non industrializzate, dove peraltro tale settore costituisce una componente di rilievo delle economie nazionali: nei paesi “in via di sviluppo” più del 60% delle donne sono occupate in attività informali, e la percentuale cresce ulteriormente se si include anche il lavoro agricolo. Nell’ambito degli impieghi regolari le asimmetrie di genere tornano invece sotto forma di disparità salariali. L’indagine dell’ONU presentata nel 2000 all’Assemblea generale, è emerso che in nessun paese per il quale sono disponibili dati di riferimento le donne guadagnano quanto gli uomini. Un altro fattore che torna costantemente, per quanto in percentuali variabili, è quello del diverso rapporto, per uomini e donne, tra il lavoro pagato e quello non pagato: quest’ultimo – riconducibile principalmente alla cura della famiglia e alla produzione dei beni di sussistenza – assorbe infatti in più larga misura il tempo femminile rispetto a quello maschile. Sono proprio queste contraddizioni a ricordarci che il discorso sui diritti riguarda tutte le donne, tanto quelle “del Nord” quanto quelle “del Sud”, e che non può disgiungersi dall’elaborazione di strategie di azione globale, ovvero dalla ricerca e dalla sperimentazione di un comune agire politico.