I racconti di MATTEO DEL FUOCO. Come ogni sera il mio yorkshire reclamava pazientemente l’esigenza della passeggiata. Abitando in Questura, il percorso era obbligato e si svolgeva su Viale Bovio e le viuzze intorno all’isolato. All’improvviso si udirono degli spari. Con disappunto del mio cagnolino tornai indietro per cercare di capire da dove provenissero.
Gli agenti della Volante si erano già mossi e le ricerche si concentrarono in via Rischiera, dove in un appartamento trovammo il corpo senza vita di un uomo. Il cadavere era in cucina, alcune persone gridavano e si capì da subito che l’omicida era ancora in casa. Si trattava di un pregiudicato di nome Torchia che conoscevamo bene per i suoi trascorsi, ma che si era chiuso in una stanza e ancora armato. Riuscii a parlargli, dissi agli agenti di uscire dalla casa per indurlo a fi darsi e fargli aprire la porta. Infatti, quando gli agenti si allontanarono, lui aprì. Entrai disarmato e questo allentò la tensione dell’omicida che mi permise a mia volta di disarmarlo. Mi raccontò i motivi che lo avevano spinto a quel gesto: la figlia della vittima, malata di Aids, lo aveva contagiato. Sempre parlandogli lo convinsi a uscire e a seguirmi. Quasi sottobraccio, lentamente, tra le persone che si erano radunate, agenti, giornalisti, raggiungemmo insieme a piedi la questura dove fu poi regolarizzato l’arresto. Il questore mi fece una solenne “lavata di capo” per aver rischiato, con un omicida ancora armato e sconvolto, di essere colpito a mia volta. Ma io ho sempre ritenuto che le armi potessero, forse più spesso, innescare la violenza piuttosto che dissuaderla e cercavo di limitarne l’ostentazione. Poi, però, venne anche l’encomio.