Per quanto ci si possa impegnare ad evitare supplizi televisivi come il Festival di Sanremo, è impossibile non cogliere qualche particolare, aggrappato alla coda dell’occhio, durante lo zapping alla ricerca di forme di espressione intelligente nell’universo dell’etere.
Il format sanremese (ma televisivo in genere) si ostina a proporre l’ennesima pagliacciata spacciata per “trasgressione”, “novità”, “rottura”, “polemica” e naturalmente “arte”.
Le virgolette tuttavia non possono contenere tutto il patetico nulla che passa sul palco di un teatro che pure qualche gioiello lo ha visto brillare.
Quando un prodotto è confezionato a tavolino si vede, a occhio nudo e anche in tutina.
Quello che è passato sul teatro dell’Ariston è un concetto merceologico talmente obsoleto da potersi definire quasi archeologico. Un vuoto di talento e contenuti, assemblato con l’obiettivo di attirare attenzione. Non gradimento si badi bene, solo attenzione. Magari disgusto, purchè faccia girare il viso e lo sguardo in quella direzione, anche solo per chiedersi: “cosa diavolo è quella cosa?”
Ai manovali del marketing basta questo per lanciare un prodotto da vendere.
Un prodotto che, malamente scopiazzato da idee (quelle si, innovative) di più di 30 anni fa, dovrebbe trasformarsi in guadagni, come le false griffes degli anni 80.
Il sintomo della povertà creativa di un periodo storico come questo si è conclamato nella patologia. Noi siamo quello che vediamo? Mi auguro proprio di no.
(IN FOTO: il gruppo comico LE TUTINE di ZELIG)