Risulta difficile fornire una definizione totalizzante del termine gioco, un suo carattere prevalente, una precisa e stabile collocazione nelle sfere delle attività umane, per i suoi molteplici aspetti che si differenziano secondo cultura, età, interessi, finalità e le prospettive attraverso la quale il fenomeno viene osservato. Nell’antichità il gioco era funzionale a introdurre i bambini alla vita adulta, per renderli consapevoli del ruolo che avrebbero assunto nel sistema sociale di appartenenza. L’importanza della stagione infantile e del gioco nella pedagogia è stata riconosciuta nel 700. Jean-Jacques Rousseau con “Émile ou de l’éducation”(1762) avvia un processo di riesame
dei rigidi modelli educativi, aprendo un diverso punto di vista sull’infanzia e sulle libere attività del bambino. Nel 1837, Friedrich Fröbel realizza il Giardino d’Infanzia (Kindergarden), nel quale i bambini, in contatto con la natura, avevano la possibilità, giocando, di scoprire le proprie potenzialità espressive e cognitive.
Nei Kindergarden ai bambini erano affidati dei Doni (Gifts), che possono ritenersi i primi giochi didattici, elementi
in legno facilmente manipolabili divisi in categorie, la cui finalità era quella di stimolare l’apprendimento di nozioni e
concetti .
Nelle avanguardie del Novecento e nella scuola del Bauhaus il giocattolo ha riscosso un particolare interesse. Alma
Buscher-Siedhoff e Eberhard Schrammen, nel 1924, realizzarono una tipologia di giocattolo con finalità pedagogiche, che sembra richiamare i Gifts di Fröbel.
Una serie di elementi in legno colorato dalle forme geometriche di base, caratterizzati da una estrema varietà combinatoria per stimolare creatività e fantasia.
Oggi i giocattoli si propongono di sollecitare l’apparato sensoriale, la creatività, la fantasia e il ragionamento, migliorare il controllo e la coordinazione fisica motoria, favorire le attività simboliche, imitative e sociali. Attraverso il gioco si genera nel bambino un particolare stato emozionale, una dimensione “fittizia” , una sorta d’illusione cosciente nella quale, però, non si perde la consapevolezza della realtà oggettiva nella quale il gioco si svolge.
A realizzare questo processo, in molti casi, sono impiegati oggetti di uso comune, ai quali vengono associati specifici
contenuti simbolici.
Così il gioco e il giocattolo, soprattutto nella prima infanzia, sembrano detenere “un’anima aperta”, indefinita e imprevedibile, in grado di far assumere agli oggetti ruoli impensabili. In Italia tra gli anni ’50 e ’60 si apre un clima culturale nel quale, come afferma Branzi: «Il bambino fu visto come una nuova componente liberatoria della rigida lezione del funzionalismo, per operare una rifondazione basata sulla spontaneità e sulla semplicità» . I giochi e i giocattoli realizzati da Bruno Munari e Enzo Mari sono l’espressione della volontà di spostare al centro del progetto il bambino, capace, attraverso l’errore, l’imprevisto e il caos, di dare vita a tipologie di oggetti “aperti” a infinite possibilità combinatorie, in grado di stimolare la creatività coinvolgendo l’intero apparato sensoriale.
Per Munari il gioco deve essere qualcosa di utile alla crescita individuale del bambino, in grado di fornire «[…]delle informazioni che gli potranno servire quando sarà adulto[…] Il gioco o il giocattolo devono essere stimolatori dell’immaginazione, non devono essere conclusi o finiti […]perché così non permettono la partecipazione del fruitore[…]». Ma oggi la realtà imposta dal mercato rende il giocattolo,in larga misura,un catalizzatore di desideri indotti, che si consumano e rinnovano rapidamente per generare profitto.
In questo clima, come rileva Brian Sutton Smith, nelle società occidentali, i giocattoli donati ai bambini diventano una richiesta di scambio, nelle quale il dono lega il bambino ai genitori e «l’impegno chiesto in cambio al bambino, è di diventare capace di giocare da solo, cosi la solitudine è il dono che il bambino fa ai genitori»
PrimaPagina, edizione settembre 2014 – Prof. Federico O. Oppedisano