Il 2011 è l’anno delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e, come sempre, l’evento porta anche a sterili e a strumentali polemiche. La Storia del processo di unifi cazione e della creazione del nuovo Stato è scritta dai vincitori, per cui bisogna stare attenti a non mitizzare personaggi e fatti, ma anche a non demonizzare lo status ante.
Occorre avere una visione ampia e dettagliata dei numerosi aspetti che hanno portato verso tale esito. Questa necessità spinge ad alcune serie rifl essioni che s’intendono proporre nel presente e nei successivi numeri di Prima Pagina. La prima rifl essione che subito affiora è la scoperta delle radici degli Italiani e del senso di appartenenza. Oggi, è sempre più di moda assistere in televisione a certe diatribe (spesso aspre contese di cattivo gusto, scadenti in prevaricazioni e insulti), durante le quali i protagonisti, quasi sempre tuttologi di turno, si vergognano di pronunziare il nome “Italia” e lo sostituiscono con il nome più generico di paese. Questo non è certo timore reverenziale ma semplice scadimento del valore di patria. Tuttavia il nome “Italia” non è così ripugnante. E’ vero pure che gli stessi studiosi non sono molto d’accordo sulle sue origini e sulla etimologia. Molti lo fanno derivare dal greco italòs (= toro), per indicare la parte più meridionale dell’attuale Calabria, abitata dai Bruttii. Altri ancora lo determinano linguisticamente da Atalu, parola accadica, che significa terra del tramonto, equivalente al nome greco di Esperia. La maggior parte conviene nel rapportarlo alla parola etrusco-umbroosca vitlu, che signifi ca vitello e che sicuramente designava sempre il sud della Calabria, terra di vitelli (Ouitoulia). Per altri il nome designa i discendenti di un certo re Italus o gli abitanti immigrati dalla città africana di Tala, da cui Taliani; o deriverebbe dal greco Aithalìa (= fuoco, fiammeggiante; della stessa radice Aith è pure Etna), a denotare l’origine vulcanica della Sicilia e delle sue isole o il rosso dell’occidente. Fonti certe, comunque stiano le cose, attestano che già nel VI-V secolo a. C. gli abitanti delle colonie greche del sud della penisola (megàle Ellas = magna Graecia), dalla madre patria, erano chiamati Italiotai. La tendenza all’unità, sia pure sotto forma di confederazione, comincia a balenare nella mente di alcuni grandi intellettuali: Dante con le sue invettive alla “serva Italia” invitava a trovare un unico nocchiero, capace di traghettare la nave oltre la tempesta; il Petrarca, nelle sue lettere a Carlo IV, sperava in una restauratio imperii; il Machiavelli auspicava un principato civile unitario e non tirannico. E così pure tanti altri illustri personaggi da Alfi eri a Leopardi, da Foscolo a Manzoni, a Verdi, a Gioberti, a Balbo, a Cattaneo e a tanti altri ancora. In quasi tutti i letterati c’è il rimpianto per la grandezza antica e, al momento, svanita dell’Italia e, subito dopo, il desiderio di un progetto che riconduca all’antico splendore. Un altro aspetto è di notevole importanza: la preesistente, al 1861, unità del Sud, regno di Napoli e/o delle Due Sicilie. Detta unità si è consolidata con i Normanni di Ruggero II, con gli Svevi di Federico II (vero sovrano illuminato), con gli Angioini, con gli Aragonesi e con gli Spagnoli. Sotto i Borbone (1734-1860), il Regno di Napoli raggiunse livelli di agiatezza, di prosperità e di benessere pari o superiore a quelli delle più grandi monarchie europee come l’Inghilterra e la Francia. (continua)