Il punto sulla profonda crisi della triplice e sulle sue cause
La crisi dei sindacati è manifesta. Il declino delle organizzazioni nate per tutelare i diritti dei lavoratori, dall’inizio degli anni 2000 è drammaticamente evidente. Le due principali organizzazioni sindacali hanno fatto registrare, solo dal 2000 al 2017, una perdita che supera i 300.000 iscritti.. Negli ultimi anni Cgil e Cisl hanno perso complessivamente circa un milione di iscritti, mentre per la Uil non lo si può sapere in quanto i dati sono disponibili solo dal 2016.
Nel 2020 gli iscritti ai tre principali sindacati, Cgil, Cisl e Uil, erano all’incirca 11 milioni di persone, anche se il numero non è certo, perché la Cgil non ha rilasciato il dato esatto (così come nel 2018 e nel 2019). Dei tre la Cgil conta circa 5 milioni di iscritti, la Cisl 4 milioni e la Uil 2,3 milioni.
Nel 2021 i tesserati CISL (dati dichiarati dall’organizzazione) sono 4.076.033, in leggero aumento (0,17%) rispetto all’anno precedente. I lavoratori attivi iscritti alla CISL rappresentano oggi il 58,89% complessivo di tutti i tesserati e passano dai 2.378.479 del 2020 ai 2.400.355 del 2021, con un incremento di 21.876 associati (più 0,92%) di cui 1.675.678 rappresentato dai pensionati. il 48,82% sono donne ed il 51,18% sono uomini. Nei pensionati il 54,00% degli iscritti è di sesso femminile, mentre il 46,00% sono uomini. Dal punto di vista anagrafico, tra i lavoratori attivi il 26,38% ha meno di 40 anni, il 28,55% ha tra 41 e 50 anni ed il 45,06% ha più di 50 anni. I nati all’estero sono 368.950 e rappresentano il 16,22% dei lavoratori attivi, i paesi più rappresentativi dei nati all’estero sono la Romania con il 17,35%, l’Albania con il 10,89% e il Marocco con il 8,13%.
Secondo uno studio della Confsal la cifra ufficiale degli iscritti, dichiarata dalle principali sigle è di 14,8 milioni ma ci sarebbero almeno 3 milioni di iscritti non dichiarati.
l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD) misura il “trade union density”, cioè il rapporto tra gli iscritti ai sindacati (escludendo i pensionati) e la popolazione occupata in un paese. Tra i paesi considerati dall’OECD per cui ci sono i dati, l’Italia è uno di quelli con la maggiore penetrazione sindacale tra i lavoratori. Per fare un confronto europeo, in Germania è pari a solo il 16,3%, in Spagna al 12,5% e nel Regno Unito al 23,5.
Vale la pena interrogarsi sulle cause di tanta disaffezione. Certo la crisi ha radici profonde, arriva dagli anni 80 e da una concertazione politica basata soprattutto sulla contrattazione reddituale e relazioni industriali volte a disarmare il dissenso, lo scontro, la critica, la “lotta”. La concertazione sembrava la soluzione ideale per evitare il rapporto conflittuale tra sindacati e governo, attraverso consultazioni preventive con le parti sociali, prima di operare scelte economiche in periodo storico drammaticamente segnato da conflitti sociali, i cosiddetti “anni di piombo” . Lavoro, salari, previdenza sociale, politiche fiscali, finanza pubblica e politiche economiche, tutto avveniva attraverso la pratica della concertazione.
Il concetto di concertazione nasce sulla scia del “compromesso storico” teorizzato da due grandi e carismatiche figure politiche: lo statista Aldo Moro, assassinato dal gruppo terroristico Brigate Rosse, ed Enrico Berlinguer, il sindacalista per antonomasia, anch’egli scomparso troppo prematuramente.
Per i sindacati inizia così un periodo di corresponsabilità in tutte queste scelte, dove il ruolo della critica o dell’opposizione deve per forza essere calmierato per poter partecipare ai tavoli di concertazione. Diminuiscono gli ambiti e le modalità di intervento. Si ritrovano così a presidiare un territorio sempre più limitato, grazie anche a scelte opinabili come le limitazioni agli scioperi, e confinato alla “fabbrica”, alla conservazione dei posti già tutelati e dei diritti già acquisiti, come le pensioni.
Nel frattempo però, è esplosa la globalizzazione, la rete, il mondo si è ritrovato tutto insieme e contemporaneamente nello stesso luogo, anche se virtuale. E in questo nuovo luogo sono nati, grazie alla tecnologia, nuovi modelli di lavoro, di impresa, di attività, di necessità, di opportunità.
I sindacati invece sono rimasti fermi, a guardare un mondo cambiare vorticosamente, a presidiare i cancelli delle ultime fabbriche sopravvissute alla crisi economica del 2009.
Un sindacato che ad oggi fatica a riconoscere e capire le nuove competenze, le nuove esigenze, sia del mondo datoriale che di quello operativo.
Dopo due anni di pandemia e adesso una crisi bellica che minaccia l’Europa intera i sindacato hanno perso i loro riferimenti di sicurezza, il senso del loro ruolo.
Sono nate categorie di lavoratori e mestieri che non esistevano solo 3 anni fa, oppure non rappresentavano una platea così vasta. Il cosiddetto smartworking o lavoro agile, gli orari flessibili, la rete internet che prepotentemente prende in mano la gestione del mondo del lavoro e delle prestazioni fuori dagli schemi e dagli strumenti abituali.
Questo è un modo di lavorare difficilmente comprensibile per una generazione che ha impostato la vita sociale di intere nazioni sulla mobilità per raggiungere fabbriche o uffici. Talmente difficile da capire che non riesce a chiedere (ma neanche a riconoscere quali siano) nuovi diritti e nuove tutele per chi invece , obtorto collo, è stato costretto ad adeguarvisi. La scuola, la PA, i trasporti, le aziende, per non essere travolti dallo tsunami della pandemia hanno dovuto attingere a tutte le opportunità delle nuove tecnologie, ma il nuovo ambiente non ha regole ed è quindi impossibile (al momento) definirne limiti ad abusi o sfruttamenti. Susanna Camusso (ex leader CGIL) lo ha definito “lavoro fordista dentro le mura di casa”.
I sindacati, in cui la componente generazionale è determinante vista la scarsissima partecipazione dei giovani, si sono ritirati “sull’Aventino”, a presidiare gli ultimi territori: pensioni e fabbriche. Due luoghi destinati inevitabilmente a profonde trasformazioni e non troppo lontane. Non a caso il ministro per la Funzione Pubblica, Brunetta, avrebbe volentieri “archiviato” la parentesi smartworking nella Pubblica Amministrazione appena terminato lo stato di emergenza post pandemia. Ma tornare indietro non è stato possibile, almeno non completamente.
Da misura emergenziale a strumento di modernizzazione, la scelta di proseguire con lo smart working è motivata dai benefici riscontrati da lavoratori e aziende. Secondo una ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, l’equilibrio fra lavoro e vita privata è migliorato per la maggior parte di grandi imprese (89%), PMI (55%) e PA (82%). Ma la combinazione di lavoro forzato da remoto e pandemia ha avuto anche conseguenze negative sugli smart worker: è calata dal 12% al 7% la percentuale di quelli pienamente “ingaggiati”, il 28% ha sofferto di tecnostress, il 17% di overworking.
Su questi argomenti e sulla perdita di posti di lavoro causati dalla pandemia, soprattutto fra i giovani e le donne, può trovare spiegazione la sfiducia nei sindacati che si traduce in calo di iscrizioni. Per fermarlo occorre quindi prendere atto di scenari sociali completamente nuovi e adeguarsi, adattare il sindacato ai nuovi lavori, alle nuove realtà, alle nuove necessità, prima fra tutte i criteri di valutazione dei quesiti e delle competenze.
Il leader della Cgil, Maurizio Landini, in un’intervista al quotidiano La Stampa chiede che: “Il governo ci convochi e si apra un confronto a tutto campo. Si stanno sommando tre emergenze: il Covid, che non finisce, la crisi climatica e la guerra. La situazione è straordinaria, penso servano risposte politiche straordinarie, sia nel nostro Paese che in Europa. Servono provvedimenti – sottolinea- che siano in grado di sostenere le imprese, il reddito delle famiglie, sia riducendo l’Iva sui beni di largo consumo sia intervenendo sul caro bollette, sia con cassa integrazione dove i costi di produzione non sono sostenibili. In Europa, invece – osserva – occorre superare definitivamente la logica dell’austerità. E per questo occorre cancellare il Fiscal Compact e rendere non transitorie ma strutturali scelte come il Next Generation Eu.”
Draghi aveva già annunciato il 31 marzo, in una conferenza stampa dopo l’approvazione del DEF , la necessità di un incontro con i sindacati per “riprendere un confronto interrotto e vedere se non si possa tutti insieme, sindacati, governo e associazioni datoriali , discutere un piano complessivo, un patto sociale riempito di contenuti e merito” .
Si torna alla concertazione, quindi, nella speranza di riannodare un filo interrotto, in un dialogo che Draghi si auspica permanente e abituale, nella consapevolezza dei tempi complicati che stiamo vivendo. Il patto tuttavia non può prescindere dalla necessità di un cambiamento in cui dovranno essere rivisti i ruoli di una istituzione che rappresenta il grado di civiltà di un Paese e il baluardo alle derive restauratrici o revisioniste della storia e del lavoro. La sfida deve perseguire obiettivi e risultati con nuovi addendi, paradigmi, modalità, principi, altrimenti, come diceva Einstein, il risultato sarà sempre lo stesso.
Mira Carpineta