Opera: intervista al Maestro Sebastiano Rolli
di Giovanni Zampito
Venerdì a Nancy, all’Opéra National de Lorraine, ha debuttato “Il Barbiere di Siviglia” di Rossini nella messa in scena di Mariame Clément, con al centro un’enorme casa di bambole dove i personaggi prendono vita e identità. Una versione riuscitissima, grazie anche alla bellezza dei costumi e alle trovate scenografiche di Julia Hansen e certo, anche alle voci degli artisti: su tutti Rosina (Patricia Nolz), il Conte Almaviva (un carismatico e dinamico Nico Darmanin) e Bartolo, qui dentista (il baritono Bruno Taddia). Una serie di trovate e di caratterizzazioni che hanno valorizzato più questi caratteri che lo stesso Figaro, qui interpretato da Gurgen Baveyan, un po’ oscurato e ridimensionato dall’insieme. Abbiamo intervistato il Maestro Sebastiano Rolli, che ha diretto l’Orchestra, partendo dal grande riscontro ottenuto e dall’entusiasmo mostrato dal pubblico.
“Le aspettative di un tale risultato c’erano anche perché le prova generale era andata bene, con grande successo: era una prova pubblica”, ci dice.
Personalmente, Lei cosa prova dopo un tale riscontro da parte del pubblico?
Provo sempre una grande gioia, però provo sempre una sensazione di miglioramento, nel senso che vedo che si sono comunque sempre delle cose da migliorare. Per cui, quando finisco una recita, la mia mente va già su quella successiva dove fare meglio.
Ma ogni tanto si gode un’opera mentre la dirige?
Raramente (sorride, ndr). Quando dirigo la concentrazione è tale per cui sono sempre molto immerso in tutto quello che devo fare, però c’è anche un grande lato di gioia, perché la gioia è musica, altrimenti non la faremmo.
“Il Barbiere di Siviglia” è un’opera che si presta a essere letta e interpretata in tanti modi: in questo caso, come ha funzionato con la casa di bambole nell’interazione fra musica e azione scenica?
L’interazione per i brani concertati non è stata un problema; magari più per i recitativi. Abbiamo dovuto trovare delle soluzioni in cui far funzionare tutto il meccanismo senza creare troppo buchi drammaturgici. Per formazione sono molto classico: lo dicono la mia storia e il mio modo di vedere l’opera. Parto sempre dal principio che siamo noi che dobbiamo adeguarci all’opera e non il contrario. Però è anche vero che in una commedia qualche libertà ce la si può prendere, anche perché Rossini stesso quando la rappresentava sicuramente strizzava l’occhio alla commedia dell’arte e a tutta quella estemporaneità legata alla quotidiana del luogo che rappresentava.
Quando l’opera è una commedia, si richiede una postura diversa al Maestro?
Sì. Se si parla di Rossini, bisogna considerare che lui non si immedesima mai nella vicenda e nei personaggi. Lui rifiuta l’immedesimazione e il vivere la vita dei personaggi, li vede da fuori: è come un burattinaio, li muove con i suoi fili. Allora, anche il direttore d’orchestra deve a un certo punto privilegiare la forma musicale e il significante sul significato. Cioè deve preferire il suono, la perfezione del gioco formale a quell’immedesimazione drammatica che in altri autori è preponderante. Per cui, c’è un atteggiamento diverso, di chi si nasconde dietro la musica e non mette in gioco i propri sentimenti in modo che il pubblico non si accorga di me.
E in questa regia i personaggi sono collocati in spazi e quasi ci possiamo giocare noi stessi…
Sono come delle marionette. Ho sempre pensato che Rossini sia un precursore del teatro dell’assurdo, l’erede di Rossini è Beckett.
Nel primo atto, Figaro dà le indicazioni per trovare il suo salone. Lei che indicazioni dà per spiegare “Il Barbiere di Siviglia”.
Il significato è molto legato alla cultura italiana. Massimo Mila diceva che nei personaggi in particolare del Barbiere, Rossini metteva in scena l’italiano machiavellico e guicciardiniano, l’italiano scettico, intelligentissimo e proprio per questo inconcludente. C’è una sorta di cinismo, di cattiveria, non si sottolineerà mai abbastanza: il buffo italiano è cattivo. In Rossini non c’è spazio per la pietà, tutto è fatto per l’utile, il tornaconto, anche l’amore è qualcosa di passeggero: l’importante è raggiungere un obiettivo che porti un tornaconto. Ed è la tradizione che arriverà anche al grande teatro napoletano dei De Filippo, di Totò: l’assenza di pietà, ma il cinismo più spietato, un’immagine dell’italiano preromantico, che non è protagonista della Storia con la s maiuscola, non è soggetto storico consapevole del proprio ruolo politico, sociale e civile, ma vede la vita come divertimento, spreco, un qualcosa che si getta nel vortice.
Guardando alla sua carriera, vede una cifra che La identifica in modo particolare?
Non penso di essere una persona cinica (ride, ndr). In questo periodo sto riflettendo su una cosa e credo sia un elemento legato all’età. Io sono nato con l’opera romantica, dunque con Verdi, Donizetti e con una passione viscerale per il dramma. Più vado avanti e più sento il bisogno della forma come conciliazione. Ho sempre amato Mozart, ma non l’ho mai capito e amato fino in fondo: adesso comincio ad amare Mozart e Rossini proprio come parte di me. La bellezza pura, la bellezza senza implicazione “emotiva” è un’acquisizione cui si arriva tardi, secondo me. Ci vuole maturità per arrivare a godere della bellezza: da giovani si gode del dramma, delle passioni forti, dei contrasti. Io mi avvicino ai cinquant’anni, fra pochi mesi sono 48, però si vede che con l’età ho bisogno di conciliazione, comincio a godere della bellezza fine a sé stessa. In questo mi riconosco in Rossini, proprio nella bellezza senza bisogno di sangue, di vendette, di battaglie… Mi ritrovo sempre più in questa dimensione dello spirito, che è la conciliazione data dalla forma.
Per riuscire in questo mestiere, parafrasando Figaro, bisogna essere in percentuale più “bravissimo” e “fortunatissimo”?
Questa è una domanda a cui potrei rispondere con un pizzico di cattiveria. Oggi essere bravissimi è il 3 per cento: conta di più avere un ufficio stampa potente anche perché se ne accorgono in pochissimi se uno è bravissimo. Chiaro, bisogna essere molto preparati: per fare il direttore d’orchestra bisogna essere preparati ma bisogna capire di che tipo di preparazione si parla. Oggi siamo nell’era della tecnica per cui il dato tecnico è ciò che viene ricercato, ma la preparazione non è tecnica, ma una preparazione culturale e umana, cioè bisogna essere vissuto un po’ per affrontare cinquanta, sessanta o settanta persone che portano un proprio vissuto e una propria esperienza, con cui confrontarsi. La preparazione culturale nel senso che l’opera, la sinfonia, la musica non è un meteorite piovuto dal cielo ma un qualcosa che nasce in una società, che vive di una filosofia, di una letteratura, di una pittura e di una scultura, di una politica… tutto questo va conosciuto per cui ci vuole una preparazione ampia, non solo musicale. La tecnica direttoriale s’impara in mezzora, ma poi è quello che si è che si porta davanti all’orchestra. Dico dunque che oggi viviamo in una società che cerca molto il dato tecnico, la bellezza del gesto, l’eleganza della figura, ma poi magari non scava tanto in profondità per vedere le radici da cui tutto nasce, che sono la base del mestiere.
Dietro a questa affermazione intravedo una punta di amarezza: è così?
(ride, ndr). No, io non mi lamento della mia vita e della mia carriera. È l’osservazione di come va la società, non solo quella musicale, ma quella in cui viviamo, una società che mette in primo piano e ricerca valori che forse non sempre mi appartengono. È una società che guarda molto all’apparenza e allo slogan, alla frase fatta, all’involucro e poco al contenuto. Questo in tutti i campi del viver civile e anche nella musica, che fa parte della nostra vita di comunità. Per cui, da osservatore e da cittadino, non posso che notare questo aspetto e lo noto anche nella mia professione. Senza amarezza: è così e bisogna cercare di convivere con questo stato di cose.
Giovanni Zambito