di Pierfranco Bruni
Il cinema nasce dentro la letteratura. Un legame stretto che consoliderà un rapporto armonico e dinamico tra paola e immagine in un linguaggio il cui centro sarà rappresentato dai personaggi. Proprio il “Si gira…” di Pirandello traccerà un singolare percorso attraverso il quale il rappresentante incontra appunto il personaggio. Saranno gli anni tra il 1930 e 1945 che daranno una dimensione appropriata al recitativo narrante attraverso la messa in scena di una letteratura che narra. Attori come Osvaldo Valenti e Luisa Ferida saranno al centro di una trasformazione in cui l’immaginario si impossessa delle immagine e la parola si imposta nei dialoghi. Si arriva così al linguaggio filmico, ovvero cinematografico.
Si parte dal narrato. Il romanzo si porta dentro la fisionomia di un raccontare per meditazioni, dialoghi e immagini. Appunto per questo si potrebbe anche dire che un romanzo è un soggetto che prosegue per impianti scenografici. Mentre un film, che si rispetti chiaramente, è sempre un raccordare la parola dei personaggi con le immagini che si vedono. Il regista diventa così il raccoglitore, insieme allo scenografo e al soggettista, dell’avventura narrante.
Nel romanzo le immagini si ascoltano, si sentono, si avvertono. Nel film si vedono e prendono corpo grazie all’immagine. Nel romanzo prendono corpo attraverso la fantasia. Quindi il gioco fondamentale è tra la fantasia che proietta sensazioni che si trasformano in immagini e le immagini che producono, a loro volta, sensazioni. Un interscambio utile e necessario in termini letterati e cinematografici. La fase dei “telefoni bianchi” resta un filo importante che consegna la commedia alla teatralità che vive dentro il film. I film di Luisa Ferida sono dentro questa dimensione.
Alla base il narrato. Cosa succede, in realtà, quando si porta un romanzo sullo schermo? Il romanzo resta un romanzo con una sua struttura non solo da valutarsi sul piano linguistico ma soprattutto sul piano della collocazione e del vissuto dei personaggi. Le immagini che nel romanzo ci sono vengono catturate dal lettore. Non vengono offerte come immagini tout court. Mentre nella trasposizione cinematografica il gioco è tutto un attraversamento di immagini e di scenari al di là dei dialoghi. Ma un film è sempre un ulteriore romanzo.
Il Novecento letterario è stato attraversato dalla caratterizzazione della dialettica tra scrittore – regista e scenografia. Gli esempi non mancano. Ciò che, comunque, contrassegna limpidamente la questione, in realtà, ha una sua versione chiarificatrice nell’affrontare il “nodo” del personaggio. Oltre ai personaggi ci sono i luoghi, i rimandi, la lettura storica. Attraversamenti dentro il processo creativo della macchina da presa.
Il cinema è movimento reale. Si pensi al cinema realizzato da Totò. Nel romanzo è l’immaginazione che prende il sopravvento attraverso le metafore. Ma il personaggio resta un disegno fondamentale. Già Giacomo Debenedetti, in alcuni suoi studi, aveva posto tale riflessione. Il personaggio compie un’avventura. La compie sia nel romanzo che nel film. Il discorso consiste nel come questa avventura si possa poi realizzare.
Da qui bisognerebbe partire per non dimenticare lo spirito che a un tale rapporto Pirandello e D’Annunzio avevano dato. Perché nonostante tutto, nonostante la trasformazione della “macchina” da presa, nonostante gli strumenti applicati nel cinema il problema che si pone, ancora oggi, è sempre lo stesso. Un dialogo che è fatto di linguaggi che si esprimono attraverso una griglia di simboli. Un rapporto che non ha mai smesso di creare istanze estetiche. Elementi che ho cercato di individuare anche nel mio romanzo “Luisa portava in una mano una scarpetta di lana” Tabula Fati, dedicato a Luisa Ferida. Anche con Luisa il cinema fa letteratura.
“La bella addormentata” che vede protagonista proprio Luisa Ferida è una testimonianza importante come resta significativo il “Luciano Serra” o “Salvator Rosa” con il quale avviene l’incontro tra la Ferida e Osvaldo Valenti. Il cinema degli anni Trenta o anche di qualche anno prima, penso a “Cenere”, è un appuntamento saliente. In “Cenere” su un romanzo di Grazia Deledda entra nel cinema Eleonora Duse. Gli attori sono sì gli interpreti, ma diventano anche un passaggio singolare in una temperie in cui la letteratura si trasforma e il cinema vive la scena oltre il teatro pur restando una teatralità di base. Questione che verrà riproposta sempre con il bianco e nero degli anni Cinquanta. Ma con questi anni si entra già in un’altra epoca. Il cinema è anima della letteratura e la letteratura è dentro il cinema.