Alla fine è arrivata. Inaspettata, per buona parte della pubblica opinione, addirittura sconvolgente. Alcuni l’hanno gridata come ‘vergognosa’. L’attesa sentenza del processo per l’omicidio di Gabriele Fadani, commerciante di 37 anni di Alba Adriatica ucciso fuori un pub la notte del 10 novembre 2009, è scoccata alle ore 18 di un pomeriggio di aprile apparentemente come tanti.
Il gup Giovanni De Renzis ha condannato il solo Elvis Levakovic, autore reo-confesso del pugno letale, a dieci anni di carcere per omicidio preterintenzionale, mentre a sorpresa ha assolto gli altri due rom imputati, Sante Spinelli e il cugino di Elvis, Danilo Levakovic. Per loro, ritirate tutte le accuse. Quella tragica notte, dunque, a togliere la vita ad un padre di famiglia non contribuirono i due giovani rom, che nonostante un video sfocato in mano all’accusa rappresentata dalla madre e dall’ex moglie di Emanuele Fadani, costituitesi parte civile, sono usciti dalla porta dell’aula di Corte d’Assise totalmente scagionati. La Procura di Teramo aveva chiesto in rito abbreviato la condanna a 30 anni per tutti e tre gli imputati, dunque il massimo della pena. Alla lettura della sentenza, la famiglia dell’imprenditore di Alba Adriatica ha iniziato una lunga, straziante protesta all’interno dell’aula di Corte d’Assise. “Oggi ci vergogniamo di essere italiani, tutto questo è semplicemente un incubo”, hanno commentato la mamma e l’ex moglie di Fadani in lacrime. Una rabbia che si è scontrata con il clima festoso appena fuori dall’aula delle famiglie dei due rom presenti in tribunale. Ad uscire per primo, dopo la lettura della sentenza, Danilo Levakovic, che ha aperto la porta levando le braccia al cielo e gridando verso i giornalisti: “In Italia la giustizia esiste!”. Durante la replica delle parti, avvenuta nella mattinata dello stesso giorno, l’avvocato dell’accusa, Rapali, aveva ricalcato in modo deciso sulla responsabilità degli altri due rom, che avrebbero concorso nell’omicidio del 37enne albense con calci e pugni tirati quando la vittima aveva già ricevuto il pugno mortale sferrato da Elvis Levakovic. Un’accusa che però non è risultata essere incisiva e che è stata ribattuta colpo su colpo dalla difesa. “La parte civile ha sviluppato male il processo e ne ha pagato caro il prezzo”, ha commentato qualcuno all’interno del tribunale. Dunque, nessun altro colpo ai danni di un uomo che giaceva inerme, probabilmente già morto. La sentenza ha lasciato una profonda, tangibile amarezza. “Uno specchio dei tempi della giustizia del nostro Paese”, l’ha definita con acuta lucidità uno dei tanti poliziotti del nutrito dispiego di forze dell’ordine presente lungo il corridoio del Palazzo di Giustizia, che in più occasioni ha visto le famiglie delle parti guardarsi a pochi metri di distanza, in un clima di tensione che è andata crescendo con lo scorrere dei giorni, e poi delle ore, dei minuti, fino a che la giustizia non si è pronunciata. Assenti in tribunale gli amici di Fadani – qualcuno dice fortunatamente, anche immaginando come si sarebbero potuti surriscaldare gli animi in seguito alla sentenza – riunitisi nell’associazione “Per non dimenticare”. Presenti in aula i genitori di Antonio De Meo, il ragazzo di 23 anni ucciso a Villa Rosa la sera dell’ 8 agosto 2009 in circostanze molto simili a quelle che hanno portato alla morte Emanuele Fadani. Per loro, l’udienza è fissata per il 23 giugno. “Se questa è la giustizia, crediamo che anche per gli assassini di mio figlio ci sarà il medesimo trattamento. Siamo disgustati da quanto è accaduto oggi”, ha commentato la signora Lucia, mamma di Antonio De Meo.