di Giuseppe Lalli
Nella valle del fiume Raiale, ai piedi di Pizzo Cefalone, sul versante meridionale del Gran Sasso, si racconta una storiella la cui origine si perde nella notte dei tempi: quella del cane di Assergi e del cane di Camarda. Assergi e Camarda – per chi non fosse pratico della zona – sono due antichi borghi a poco più di due chilometri di distanza; eppure in essi si parla un dialetto assai diverso, ciò che è da sempre fonte di reciproca ironia tra gli abitanti dei due villaggi. La pronuncia nella parlata assergese è stretta e chiusa, mentre nella vicina Camarda è larga e aperta. La storiella dei due cani illustra assai bene questa singolare differenza idiomatica.
Possiamo immaginare che il cane di Assergi, affamato e in cerca di cibo, a circa metà tragitto tra i due paesi, poco sotto la “curva del brigante” (cosiddetta perché in quel posto, poco più di 150 anni fa, fu ucciso un brigante) si imbatté in quello di Camarda, che portava in bocca un bell’osso. Il cane assergese, con fare da “gatta morta”, gli chiese a bocca stretta: “D’ do scì?” (Di dove sei?), al che il cane di Camarda rispose ingenuamente: “So’ dde Camarda” (Sono di Camarda), aprendo la bocca e lasciando cadere per terra la preda, che fu subito afferrata dal cane di Assergi. Il cane di Camarda, appena riavutosi dal colpo, volendo rifarsi, chiese a sua volta al suo interlocutore: “E tu de ddo sci? (E tu di dove sei?). “So’ d’Assirgi” (Sono di Assergi), rispose l’altro a denti stretti e tenendo quindi ben saldo in bocca l’agognato osso sottratto al concorrente.
La favoletta, simpatica ma per la verità anche un po’ malignetta, è stata sicuramente inventata da un assergese. Lo scaltro quadrupede di Assergi in apparenza sembra farci bella figura, ma in realtà è il cane di Camarda, più aperto e per questo buggerato, a riscuotere la nostra simpatia. La storiella vuole mettere in evidenza due aspetti, la diversità dell’idioma e quella del carattere, ritenuti tra di loro in stretto rapporto. Riguardo alla pronuncia del dialetto assergese, un illustre camardese del passato, Vincenzo Moscardi (Camarda, 1861 – Ivi, 1933), sacerdote, e per lunghi anni professore al seminario diocesano dell’Aquila, scriveva che essa “è stretta e cupa; e, fenomeno curiosissimo, mentre a Camarda abbondano i suoni vocali aperti, ad Assergi, che non dista più che poche centinaia di passi, prevalgono i chiusi” (1).
Circa l’idioma camardese lo stesso autore scriveva che esso “come in genere quello Abruzzese, è piuttosto dolce che aspro; vi si sente il ritmo melodioso delle località marine a preferenza del sibilo stridente delle montagne. Il che appare chiaro nei […] canti rozzi, ricchi, più che di rime, di assonanze; rozzi sì, ma spesso altamente espressivi. In brevi motti sono non di rado slanci di amore e gridi di angoscia, delicatezza di sentimenti e furia di passioni, gemiti e sospiri, lagrime e sorrisi (2). La descrizione è assai poetica e appropriata al carattere dei camardesi. In queste righe del Moscardi si coglie che le ragioni del cuore – il legame sentimentale con le sue radici – hanno finito per prevalere su ogni altra considerazione.
Assergi
Camarda
Senonché, definire “fenomeno curiosissimo” la differenza di pronuncia tra il dialetto di Assergi e quello di Camarda (“stretta e cupa” la prima, caratterizzata da “suoni vocali aperti” la seconda) e parlare, riguardo all’idioma camardese, di “ritmo melodioso delle località marine” a differenza del “sibilo stridente delle montagne”, è spiegazione alquanto superficiale. Sarebbe come dire che Pescara, dal momento che è una città di mare, non può non avere un dialetto più dolce e musicale di quello dell’Aquila, città di montagna: conclusione, questa, che l’esperienza contraddice in pieno. E tanti altri esempi si potrebbero fare a smentire la tesi del pur valente Moscardi.
L’Abruzzo, come del resto l’intera penisola italiana, possiede una grande varietà di dialetti, e non potrebbe essere diversamente in una regione dal territorio molto accidentato e con al suo interno vie di comunicazione che nel passato erano poco agevoli. Come in tutto il territorio italiano, in Abruzzo ogni comune, anzi ogni frazione, ha la sua particolare parlata. Tra le componenti di una lingua (e di un dialetto, che, a suo modo, è a tutti gli effetti una lingua) la fonetica, vale a dire tutto ciò che ha a che fare con i suoni e con la pronuncia, è quella più caratteristica e la più impermeabile ai cambiamenti, anche se anch’essa tende a modificarsi alla luce di mutamenti sociali come la scolarizzazione e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (la pronuncia dialettale dei vecchi di Assergi nel secolo scorso non è la stessa dei ragazzi di oggi quando si esprimono nell’idioma locale) ( 3).
Sulla diversità dei dialetti di Assergi e di Camarda, tuttavia, oltre ai motivi generali dianzi accennati, c’è da rilevare che il “fenomeno curiosissimo” si spiega con una differenza per così dire “paradigmatica”. I due antichi borghi della valle del Raiale, per uno di quei tanti scherzi della storia e della geografia che caratterizza la nostra Penisola, benché distanti l’uno dall’altro quanto – come suol dirsi – un tiro di fucile, al pari di altre località contigue come – per rimanere nel nostro territorio – Bazzano e San Gregorio, Pianola e Roio, Filetto e Barisciano, segnano la fine e l’inizio di due differenti aree linguistiche del “sistema centro-meridionale”, uno dei cinque raggruppamenti linguistici dell’intero territorio nazionale, secondo una classificazione, fatta propria ormai dalla maggior parte degli studiosi, del celebre linguista Giovan Battista Pellegrini (1921-2007) (4).
Nel contesto linguistico abruzzese, il dialetto assergese appartiene alla famiglia dei dialetti “vestini”, ed è da considerarsi, come la maggior parte dei dialetti abruzzesi (5), già un dialetto meridionale o, se si vuole, alto-meridionale (della stessa famiglia del napoletano, per intenderci), mentre quello camardese, al pari di quello aquilano e dei dialetti dell’alta Valle del fiume Aterno, nonché della parte orientale della Marsica (Tagliacozzo e Carsoli, volendo semplificare), è un dialetto “sabino”, vale a dire “centrale” o “mediano” che dir si voglia (la stessa famiglia dei dialetti umbro-sabini, pur in una variante assai originale). La valle del fiume Raiale, nel territorio settentrionale aquilano, segna grosso modo la linea di demarcazione tra le due aree centro-meridionali.
Il carattere sostanzialmente “vestino” del dialetto assergese, ciò che lo differenzia da quello camardese e più in generale da quello degli altri paesi della valle (tutti, più o meno, “sabini”, sia pure con talune caratteristiche fonetiche proprie) non deve stupire più di tanto. La spiegazione può essere forse ricercata nel fatto che nei secoli passati l’influenza del vicino capoluogo aquilano, decisamente “sabino”, come si accennava dianzi, può non essere giunta fino al più remoto Assergi; o, più verosimilmente, Assergi, nei secoli passati paese di fiorente pastorizia, a motivo della “transumanza” (l’abitudine di condurre gli ovini, nella stagione invernale, in terra di Puglia) ha mantenuto contatti assai forti con il contiguo territorio vestino. Le dinamiche sociali ed economiche sono un fattore molto importante in riferimento alla lingua di una comunità.
Caratteristica saliente dell’idioma assergese, come di tutti i dialetti alto-meridionali, è una vocale, che s’incontra in finale di parola o di sillaba, che è una una ‘e’ “muta” o “indistinta” che sarebbe più corretto definire “vocale centrale media” o schwa (6): è un suono che non esiste nell’alfabeto della lingua italiana: esiste nella lingua francese (è la vocale dell’articolo determinativo ‘le’, o del pronome personale corrispondente al nostro “io”, vale a dire “Je”, termini dove la ‘e’ non si legge, è muta); ed esiste nella lingua napoletana, alla cui famiglia, come dianzi accennato, il dialetto assergese in qualche modo appartiene. Non sarebbe del tutto sbagliato, per rendere questo suono, omettere di scriverlo (es.: A ddo scì stàt? Que scì fàtt?: Dove sei stato? – Che hai fatto?). Il suono, convenzionalmente (secondo il dizionario fonetico internazionale) si rappresenta con un segno che corrisponde ad una ‘e’ capovolta (ə) o con una ‘e’ con la dièresi (ë); e così la frase ‘A ddo scì stat?’ è corretto scriverla: ‘A ddo sci statə?’. Di certo non è corretto, anzi è fuorviante dal punto di vista fonetico, rappresentarlo, come spesso si legge nelle trascrizioni delle poesie dialettali, con la ‘e’ semplice.
Ciò che a Camarda si pronuncia con la ‘u’ finale ad Assergi si pronuncia con la predetta ‘e’ muta; e così, a titolo esemplificativo, termini come ‘corteju’, ‘tavulinu’, ‘piattu’ , ad Assergi si pronunciano ‘cortejə’, ‘tavəlinə’, ‘piattə’. Altre caratteristiche si potrebbero evocare ad indicare le differenze tra i due dialetti, ma lo scrivente conta di tornare sul tema, Deus adiuvante, con altro più esauriente ed articolato scritto. C’è poi, legata alla fonetica, la prosodìa, quel ritmo che accompagna la frase e spesso punteggia le singole parole, un andamento della voce che nella parlata aquilana, assai musicale, richiama, come è stato detto con felice immagine, il movimento di una ruota sconnessa, mentre nel dialetto camardese assume la forma di una dolce cantilena.
Trattando di materia linguistica, al pari di altre materie, l’aspetto tecnico non si può evitare, a meno che non si voglia improvvisare; e chi scrive, che non ama improvvisare, a costo di apparire noioso, oltre che pedante, non lo ha evitato: lo richiedeva la chiarezza espositiva, che mal si concilia con la eccessiva semplificazione. Ma l’espressione linguistica non è, evidentemente, solo una questione tecnica: è un fenomeno che ha molto a che fare con la storia sociale di una comunità e, più in generale, con il modo in cui si percepisce e si giudica la realtà esterna, vale a dire con i valori culturali della comunità stessa. Il dialetto poi, assai più dell’idioma letterario, è lingua del cuore, cioè ha a che fare col sentimento, come testimoniano le osservazioni di Vincenzo Moscardi sopra riportate.
Torniamo, dunque, ai nostri due vicini villaggi dell’alta valle del Raiale: Assergi e Camarda. Io che scrivo queste note, nato e cresciuto ad Assergi, ricordo di memorabili partite di calcio giocate nella bella stagione tra i ragazzi dei due paesi in una località chiamata L’ Are ’lla torre (L’aia della torre), un piccolo altopiano fuori del centro abitato di Camarda che negli anni precedenti era utilizzato come aia in cui raccogliere il grano da trebbiare. Il sito era così scosceso che se il pallone calciato forte da uno dei giocatori superava la linea – si fa per dire – laterale del campo di gioco, bisognava fare una scarpinata per andare a recuperarlo, mentre le porte erano contrassegnate da grosse pietre.
Al termine di uno dei tanti incontri, svoltosi in un pomeriggio di domenica e terminato con la vittoria di noi assergesi per un solo gol di vantaggio (un rigore trasformato dal sottoscritto con un tiraccio calciato forte e di punta verso l’angolo che il portiere aveva intuito non riuscendo però ad intercettare in tempo la palla col piede) si stava, come d’abitudine, tutti assieme a commentare i momenti salienti della partita e a programmare la prossima sfida. Un ragazzo della squadra camardese, con molto garbo, fece rilevare a noi assergesi: “Eh…vo’ sete vinto pecché no’ steamo stracchi: prima dde jocà no’ semo stati a zappà le patàne” (Eh…voi avete vinto perché noi stavamo stanchi: prima di giocare eravamo stati a zappare le patate). Era un modo per dire che noi di Assergi, più “signori” rispetto a loro, la domenica potevamo permetterci di riposare. La frase, pronunciata con quella originale e simpatica inflessione della voce con la quale i camardesi punteggiano le loro espressioni verbali, mi piacque molto. Quel ragazzo lo abbracciai con lo sguardo. E da allora nei derby successivi, prima del calcio d’inizio, sempre andavo a fraternizzare con i ragazzi di Camarda, come se volessi farmi perdonare in anticipo di un’eventuale vittoria da parte della mia squadra.
La contrapposizione tra paesi vicini è proverbiale. Del resto, l’Italia, più che il paese delle 20 regioni, è la patria delle migliaia di campanili. Inoltre, fino al secolo scorso all’interno di uno stesso villaggio c’era quasi sempre un quartiere più povero: ogni borgo, soprattutto nel Mezzogiorno, aveva la sua “questione meridionale”. In quale misura le differenze linguistiche, al pari delle differenze di latitudine e di altitudine, possano influire sul temperamento delle persone, anche a poche centinaia di metri di distanza, è questione ardua e affascinante, e appartiene tanto alla scienza sociale quanto alla dimensione del mistero. In ogni caso, le differenze tra gli uomini e le comunità, quali che siano, sono destinate ad unire, non a dividere. Tutto è umanità, tutto è ricchezza, tutto è… grazia. Viva Assergi e viva Camarda! Vedete un poco, cari lettori, quanta “Storia” si può ricavare a partire da una “storiella” di due cani… Mi piace concludere questa piccola dissertazione sugli idiomi dei due paesi della valle del Raiale con i versi di Silvio Lalli (Assergi 1886 – L’Aquila, 1938), direttore didattico e poeta tra le due guerre, nonché prozio dello scrivente.
VALLE DEL RAIALE
Bella e ridente valle del Raiale:
lunga distesa di prati fioriti;
chiare acque mormoranti tra gli arditi
pioppi; aspri declivi ove il pié sale
a calpestare l’odoroso timo
e i selvaggi garofani fragranti;
timide e care pecore brucanti
l’erba novella e i fior: dal sommo all’imo,
ogni casa, il ciel puro, l’armonia
di piumati cantori, l’ombra amica,
zeffiro e luce fan cotanto aprica
la malîosa verde valle mia.
Baluardo infrangibile, il Gran Sasso
sta sullo sfondo con le vette bianche
ancor di nevi, e ognor schiere non stanche
d’animosi ver lui movono il passo.
(Silvio Lalli, Elevazioni, 31)