Recensione al libro Le scomode verità nella II Guerra mondiale, di Vincenzo Di Michele
di Franco Presicci
MILANO – La guerra non è un’avventura, come qualcuno ha sentenziato. Non è un’esperienza di vita. La guerra sconvolge uomini e paesi, li incenerisce, li annienta. La guerra lascia ferite e traumi che non si dimenticano più. Il tuono delle bombe, il sibilo delle sirene, le corse ai rifugi antiaerei, le maschere antigas per i capi fabbricato, i pali messi a sostenere i soffitti dei pianterreni per evitare che un ordigno li faccia sprofondare, la paura, il terrore, gli urli delle mamme, i pianti dei bambini, il coprifuoco, le tessere annonarie, le fucilate contro persone innocue, gli stupri. Sentii dire che la guerra ha una funzione economica, anche perché disincrementa le nascite e assottiglia le popolazioni. Cinismo, disumanità, ignoranza, e magari interesse in chi durante la guerra fa lievitare il conto in banca.
Ho novant’anni e negli anni della guerra ero in grado di assimilare ciò che stava succedendo. Con i miei familiari ero sfollato a Martina Franca, dove arrivavano le voci dei disastri, tutte inquietanti, ansiogene. E dal piazzale del trullo la notte potevamo vedere l’orizzonte che s’infiammava. Lì c’era Taranto. Da bambini ci dicevano: arrivano gli americani, i liberatori, chissà se passeranno da qui; e se lo fanno che sarà di noi? Sarà un bene o un male? I tedeschi, passati da alleati a nemici, evacuavano, facendo altre distruzione, altri morti, altri feriti: per dispetto, per rabbia, per crudeltà.
Gli americani ci “regalarono” prima le bombe, poi le chewing gum, la cioccolata, le sigarette Lucky strike, il woogie boogie. Alcuni sposarono le nostre donne, altri le lasciarono spegnendo in loro il sogno americano, altre vennero stuprate e lasciate sulla strada. Ricordo la borsa nera, il pane razionato, gli ordigni atomici su Hiroshima e Nagasaki … Terminato il conflitto, la gente sentì il bisogno di distrarsi, di dimenticare, di disperdere l’angoscia, affollando le balere. Dimenticò davvero?
Poi abbiamo vissuto quasi 80 anni di pace, con l’illusione che mai più l’uomo avrebbe perduto i lumi della ragione. E invece ci ritroviamo nell’inferno con l’Ucraina quasi rasa al suolo e la striscia di Gaza infiammata, con la tregua che balugina tra un giorno e l’altro, insanguinati. La televisione manda immagini terrificanti: palazzi crollati, sventrati, scheletri di cemento, gigantesche macerie su migliaia di vittime, che i superstiti bagnano di lacrime. Ci domandiamo con paura: E se questa follia coinvolge altri Paesi? E se un potente fuori di testa, andando oltre le minacce, decide di sganciare la bomba atomica? Sarebbe l’apocalisse.
L’uomo dissolve ciò che tocca. Chi odia la guerra e chi la teme sono impotenti, indignati, terrorizzati, disgustati nel vedere chi ordina la distruzione di massa sorridere davanti alle telecamere fra le mimose, simbolo di delicatezza, virtù delle donne, di riscatto da una condizione di ingiusta inferiorità. Che c’entra con la mimosa l’uomo che annulla un Paese con disumana freddezza? E gli altri? Hanno le loro colpe.
L’abbiamo già vissuta la guerra in casa: non vorremmo che proseguisse, sconfinasse, accrescendo i lutti e il dolore. Immagino la sorpresa di Arrigo Benedetti quando entrò a Tombolo e incontrò i contadini che si tenevano lontano dai campi che erano stati minati; e nelle baracche degli Alleati erano ammonticchiati farina, birra in scatola, pizza preconfezionata, zucchero…
Curzio Malaparte, futuro autore de “La pelle” (uscirà nel ‘49), descrisse i drammi di Napoli tra “segnorine” e sciuscià, fame, miseria, disastri, tormenti, una città meravigliosa, quasi unica, sconvolta. A Livorno i tedeschi disseminarono le strade di penne stilografiche e altri oggetti trasformati in ordigni che strapparono dita o mani o gambe, la vita a chi ebbe l’imprudenza di toccarli. La cattiveria, la brutalità fatte persona. Oltre a Napoli, Palermo, Roma, Pescara, Livorno… bombardate. A Milano la pioggia di fuoco mutilò la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, piazza San Fedele, demolì una scuola elementare a Greco, facendo un centinaio di morti. Ricordi non in ordine di data, ma lancinanti.
A scatenare la memoria non sono stati soltanto i conflitti in Ucraina e nella striscia di Gaza, ma anche un libro di Vincenzo Di Michele intitolato “Le scomode verità nascoste nella seconda guerra mondiale” (Edizioni Vincenzo Di Michele, Roma, 2024), interessante, stile limpido, scorrevole. Di verità nascoste ce ne sono state davvero tante. Un esempio? Le foibe. Occultate per anni. Migliaia di corpi gettati negli anfratti, nelle grotte per sottrarli alla scoperta. Quante donne sono state violentate nella seconda guerra mondiale, in casa, in strada, ovunque. Quanti soprusi sono stati perpetrati contro le donne, ridotte allo stato di schiave anche nei posti di lavoro.
“Sul fronte orientale i tedeschi violentarono le donne russe, mentre in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito… La Germania era totalmente distrutta e in una situazione di grave indigenza”. Pagine crude, senza voli stilistici. Si inoltrano nei crimini nazisti, negli orrori dei campi di concentramento, dove la vita non aveva alcun valore, dove l’annientamento di massa era fatto sistematicamente: una vita si trasformava in fumo che usciva dai comignoli dei forni crematori. “Tu passerai per il camino”. E migliaia di esseri umani ci passarono.
Di Michele dà spazio ai racconti delle donne ebree che sono riuscite a salvarsi dai campi recintati col fil di ferro spinato, con ferite sul corpo e nell’anima che non si cancelleranno mai. “Avrei voluto essere un cane, perché ai nazisti piacevano i cani”. I tedeschi non avevano una coscienza o un barlume di ragione… Consideravano subumani i prigionieri: “tutti esseri deboli, fisicamente tarati e sempre con le mani alzate in segno di resa, perennemente propensi alla sconfitta e al pianto”.
Nel loro comportamento squilibrato i soldati di Hitler non facevano altro che infliggere violenze e umiliazioni. “Aizzavano i cani che mordevano i genitali agli uomini e il seno alle donne. A seguire premiavano queste bestie con carezze e coccole in maniera smisurata”. Uomini e donne per la fame e le scudisciate erano scheletri con gli occhi infossati. Uomini e donne, persone, certi di non sopravvivere fino al giorno dopo. I racconti di chi ce l’ha fatta sono tremendi. Umiliante è il numero che portano ancora sul braccio: numero che sta a testimoniare la condizione in cui erano ridotti: un numero e basta. Senza un nome. Senza più una storia. Fantasmi in cammino, chi aveva ancora la forza di muovere le gambe per fare un passo.
Alla fine della guerra, davanti ai tribunali i responsabili di questi crimini si difesero dicendo che avevano obbedito agli ordini. Questo li assolve? Kappler fuggì dal Celio, un giorno di agosto. Forse raggomitolato in una valigia? L’ipotesi s’impose. Ma chi fu complice della fuga? Erich Priebke anche dinanzi al tribunale mantenne la sua boria senza allentarla un momento, sicuro di aver operato bene. Almeno così quando lo si vedeva comparire sul piccolo schermo. Chi è stato complice delle fughe dei nazisti che dovevano rendere conto delle loro azioni? Di Michele risponde senza esitazioni, senza dubbi.
C’è un uomo – lo ricorda anche Di Michele – che tenacemente, instancabilmente, cercò ovunque i criminali nazisti, acciuffandone non pochi. Si chiamava Simon Wiesenthal, ed era stato liberato dagli alleati nel maggio del ‘45 dal campo di sterminio di Mauthausen. Di Michele incalza. Episodio dopo episodio, storia dopo storia. Compresa quella della scomparsa di Ettore Majorana, il fisico scomparso la sera del 25 marzo ‘38, a 31 anni. Era molto stimato da Enrico Fermi, che scrisse al duce per sollecitarne la ricerca.
ll libro contiene anche una serie di immagini, tra cui quelle terribili delle bombe su Hiroshima (il 6 agosto) e su Nagasaki (il 9) del 1945. Scorrono anche quelle di Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio all’Istituto di Fisica e Chimica di Parigi, e scene sulle brutalità della guerra. Ce n’è abbastanza. Speriamo di non vedere più affisso sui muri il manifesto con la scritta “Tacete, il nemico vi ascolta”. E speriamo di non vedere più nemmeno la foto della donna anziana vestita di nero che si aggira tra le macerie del suo paese.
Milano, 10 marzo 2024