I ricordi di prigionia del militare aquilano, internato nel lager nazista di Zeithain dal febbraio 1944 all’aprile ’45
di Goffredo Palmerini
L’AQUILA – Il 27 gennaio Vinicio Palmerini è stato insignito della Medaglia d’onore per deportati e internati nei lager nazisti, previsto dalla Legge n. 296 del 2006. Il riconoscimento è stato consegnato ai familiari del militare aquilano (deceduto nel 1988 a Paganica) dal Prefetto dell’Aquila Cinzia Torraco, nel corso d’una cerimonia con altre onorificenze, che si è tenuta nella ricorrenza della Giornata della Memoria (ore 10) in Prefettura. Vinicio Palmerini fu deportato in Germania dopo l’8 settembre ’43 dal fronte greco e detenuto in un campo di concentramento della bassa Sassonia, fino a quando non venne liberato dall’esercito russo. Fu uno dei circa 600mila militari italiani internati nei lager nazisti, che opposero una particolare forma di Resistenza con il loro rifiuto a collaborare, subendo così ogni forma di privazioni, violenze, malattie e in molti la morte.
Qui di seguito si riporta con assoluta fedeltà la trascrizione degli appunti del reduce Vinicio Palmerini, internato dal febbraio 1944 all’aprile 1945 nello Stalag IV B di Zeithain, lager nazista situato tra Lipsia e Dresda. Gli appunti sono scritti fittamente a matita in un quadernino (cm. 8×13) con copertina di cartoncino rosso, con 18 fogli senza righe. Il reperto, dove sono appuntati i ricordi, è stato rinvenuto l’8 gennaio 2022 in un piccolo baule contenente vecchie lettere, cartoline, carte e documenti di famiglia, recuperato dopo il terremoto del 6 aprile 2009 dall’abitazione di Paganica (L’Aquila) e rimasto accantonato. La testimonianza scritta di Vinicio Palmerini si va ad aggiungere a quelle già note degli ex IMI, reduci dai lager nazisti, a costituire un ulteriore tassello di memoria dell’altra Resistenza al nazifascismo, non meno eroica di quella combattuta in Italia, in armi o con forme umanitarie.
Lo Stalag IV B fu uno dei più grandi campi di prigionia della Germania nazista. Si trovava nei pressi della città di Mühlberg, in Sassonia. Lo Stalag aveva un campo secondario a Zeithain, un “reservelazarett” inizialmente destinato ai prigionieri russi, poi utilizzato da prigionieri di varie nazionalità, compresi molti internati italiani. Le condizioni disumane del lager, mancanza di igiene, denutrizione, scarsa assistenza medica e lavoro coatto facilitarono la diffusione di epidemie e gravi malattie, soprattutto tubercolosi, con la morte di decine di migliaia di prigionieri, tra cui 900 italiani. Nel lazzaretto di Zeithain, tristemente conosciuto come “campo della morte”, erano trasferiti gli Internati Militari Italiani gravemente malati, ma anche medici, cappellani e crocerossine che decisero di non aderire alla Repubblica Sociale. Lo Stalag IV B di Zeithain fu liberato dall’Armata Rossa il 23 aprile 1945. Dopo la fine della guerra il territorio del lager, ricompreso oltrecortina nella Germania comunista, rimase per decenni inaccessibile. Solo l’infaticabile opera di alcuni reduci di Zeithain – in primis Padre Luca Airoldi, ex cappellano del campo che nel suo diario aveva annotato tutti i nomi degli IMI deceduti a Zeithain, e l’ex Ten. Col. Leopoldo Teglia, attuale presidente dell’Associazione Nazionale Ex Internati (ANEI) sezione di Perugia -consentì nel 1991 di localizzare il cimitero militare italiano e di riesumare e rimpatriare le spoglie di quasi tutti i caduti italiani di Zeithain.
Il racconto di Vinicio Palmerini – mio padre – è vergato a matita in 34 facciate del quadernino. Sulle ultime due sono riportati i nomi dei commilitoni, legati alla stessa sua sorte, con le relative località d’origine: Rota Giuseppe, Caprino Bergamasco; Rota Virgilio, Ponte San Pietro; Comi Giuseppe, Caluzzo d’Adda. Se mesi dopo la liberazione, il 16 ottobre 1945, egli arrivò scheletrito e lacero a Paganica dopo un lungo viaggio, in parte fatto a piedi o con mezzi di fortuna, risalendo da Brindisi o da Bari, dove una nave dal porto di Odessa aveva ricondotto in Italia gli internati liberati dall’Armata Rossa. Mi auguro davvero che anche questa testimonianza di Vinicio Palmerini (Paganica, 18 agosto 1914 – Paganica, 8 gennaio 1988), nella sua stringata ma illuminante essenzialità, possa contribuire a far meglio conoscere la Resistenza opposta al nazifascismo dagli internati militari italiani, il loro sacrificio e la loro dignità. E infine l’onore che resero alla Patria, a quell’Italia che il 2 giugno 1946 avrebbe scelto la Repubblica ed eletto l’Assemblea costituente, e che nel 1948, vigente la Costituzione della Repubblicana, il 18 aprile avrebbe eletto il Parlamento dell’Italia libera e democratica, nata dalla Resistenza e dalla lotta di Liberazione dal nazifascismo. Finalmente, il 19 novembre 1997, l’Italia ha reso agli ex IMI il doveroso tributo di riconoscenza, conferendo all’Internato Ignoto la Medaglia d’oro al valor militare, con una motivazione che l’affranca da oltre mezzo secolo di trascuratezza nell’edificazione della memoria collettiva degli Italiani, e successivamente, con la citata legge del 2006, la Medaglia d’onore a ciascun internato militare nei lager che, a costo di pesanti conseguenze, oppose la propria resistenza ai nazisti.
Internati Militari Italiani (IMI) furono classificati dalla Germania di Hitler i soldati italiani fatti prigionieri, catturati e rastrellati (sul territorio italiano, in Slovenia, Croazia, Albania, Grecia, Isole Egee e Ionie, Provenza e Corsica) dopo l’8 settembre 1943 e deportati nei campi di prigionia del Terzo Reich. E’ la storia di oltre 600mila militari italiani negli Stalag della Germania nazista: i nostri soldati, sottufficiali e ufficiali che operarono “resistenza” opponendo il rifiuto alla collaborazione con i nazisti, al costo di indicibili privazioni e sofferenze. In diverse migliaia di casi – oltre 25mila – andarono incontro alla morte per fame, stenti e malattie. Oltre cento questi campi di prigionia (stammlager), la gran parte situati in Germania e Polonia, ma anche in Austria, Russia, Ucraina, Bielorussia, Rep. Ceca, Francia e Slovenia. I nazisti usarono ogni mezzo di persuasione verso i prigionieri italiani perché scegliessero l’esercito tedesco o i repubblichini di Salò per continuare la guerra, offrendo ogni vantaggio rispetto alla durezza della detenzione nei lager. Agli “internati militari italiani”, a differenza dei prigionieri di guerra, non venivano riconosciute le garanzie e le tutele previste nella Convenzione di Ginevra del 1929.
Solo gradualmente, e tardivamente, le dolorose vicende degli internati militari sono entrate nella memoria collettiva del Paese, come una forma di Resistenza al nazifascismo. Fu soltanto a partire dagli anni ‘80 che in Italia e in Germania la storiografia cominciò ad occuparsi di questo problema, fino ad allora rimasto negletto, tanto che la scarsissima conoscenza delle vicende sofferte degli ex IMI è giunta fin quasi ai nostri giorni. E’ stata finalmente illuminata nel 2012 dal Rapporto della Commissione italo-tedesca, insediata dai Ministeri degli Esteri di Italia e Germania nel 2009. Fino ad allora la questione degli IMI era stata presente solo attraverso testimonianze e ricordi dei reduci dai lager nazisti.
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RICORDI DI PRIGIONIA
Palmerini Vinicio di Giuseppe – Paganica del Moro (L’Aquila)
«Giorno 15 Agosto ho festeggiato con gli amici Rota Giuseppe e Comi Giuseppe tutt’e due Bergamaschi mangiando a mezzo giorno gnocchi e risotto condimento grasso di maiale e carne, giorno 18 non ho potuto festeggiare (è il giorno del compleanno di Vinicio, ndr) per mancanza di grasso e l’abbiamo rimesso a un altro giorno la sera del detto giorno. Con il giorno successivo ho avuto un continuo fischio all’orecchio destro e pensavo continuamente alla famiglia dicendo “chissà forse si rammenterà del mio compleanno”, ed è questo il segnale che me lo comunica.
Alcune notizie della mia Prigionia
Nei primi dì di settembre quando il Capo del governo generale Badoglio, cessate le ostilità con gli Anglo Americani e precisamente il giorno 8 Settembre, giorno in cui i tedeschi disarmarono l’esercito Italiano, io mi trovavo oltremare e precisamente in Grecia, quindi il nostro disarmo è avvenuto sei giorni dopo cioè il 14 Settembre. Verso le ore 13 vediamo arrivare due autoblinde accompagnate da otto autocarri. Noi non si aveva l’ordine di far fuoco contro loro, quindi sono entrati senza nessun disturbo, arrivati davanti al nostro Comando ordinano immediatamente l’adunata con tutte le armi e munizioni. Fatta l’adunata inquadrati, vengono davanti e d’intorno a noi misero le loro mitraglie spianate verso di noi pronte a far fuoco.
Dopo aver messo intorno al nostro accantonamento viene avanti verso di noi un Maggiore ed un tenente tedesco ed incomincia la propaganda in tedesco che a sua volta il tenente la traduceva in Italiano dicendo: Il generale Badoglio ha tradito l’Italia, compreso tutti gli Italiani, consegnandola nelle mani degli Anglo Americani, però con un solo vostro proposito potrà ancora essere liberata ed i suddetti buttati fuori dall’Italia. Il vostro proposito sarebbe quello di firmare quali combattenti a fianco dell’esercito tedesco, il quale a sua volta pensa a condurvi in Italia per liberare la vostra terra dall’invasore.
Secondo, tutti quelli che non si sentano più di combattere potranno loro firmare quali lavoratori civili e verranno mandati in Germania. Quindi dopo aver fatto un discorso di circa 30 minuti ha rivolto a noi queste domande: Tutti quelli che vogliono difendere la loro Patria cioè combattenti, fuori! 3 sottotenenti, un capitano e 5 soldati, tra i quali uno di questi col nome di Cripioli Antonio, il quale è stato illuso da un altro suo compagno a farlo firmare e che dopo al secondo giorno divenne pazzo ed è morto all’ospedale di Larissa. Poi visto che nessuno più aderiva quali combattenti ha chiesto i lavoratori, ed a questo una buona parte andavano fuori, ma visto che la massa eravamo restati fermi al nostro posto, e quindi anche loro sono rientrati pian piano alle nostre file. Il Maggiore tedesco visto tale gesto ordina alle sue guardie che erano intorno a noi di caricare le armi.
Poi rivoltosi verso di noi con un grido spaventevole ci ordina di buttare a terra le armi. Noi se pur avvelenati e con la volontà di reagire con le armi contro di loro, ma a questo momento non più si poteva, e siamo stati costretti a lasciare le armi. Dopo essere disarmati ci han condotti entro un recinto e con le guardie all’intorno, da non poter più muoversi altrimenti ci sparavano addosso. E per ben quattro giorni ci hanno lasciati lì dentro senza mangiare. Ed il più grave senza potersi nemmeno liberare dal sole scottante estivo coprendosi con un telo da tenda per fare dell’ombra, proibito severamente anche questo. Il giorno 18 Settembre la mattina alle 5 sveglia ed adunata per la partenza, ci consegnano mezza pagnotta ed un pezzetto di formaggio nostro, e questi sono i viveri della giornata per far 60 km. di marcia. Ed alle 7 siamo partiti per non molto farla lunga abbrevio il mio dire altrimenti raccontar tutto non terminerei mai.
Quindi al 45 km ci siamo fermati, ma io che lungo tutta la strada fatta mi sentivo un forte dolore di testa, qui mi era ancora più aggravato, fui costretto a legarmi un asciugatoio alla testa. Vedendomi il tenente mi domanda cosa avevo fatto, e racconto tutto, chiama subito l’infermiere e mi fa misurare la febbre e l’avevo a 39,5 quindi s’interessa subito per mandarmi a Larissa con l’autoambulanza tedesca, ma io volevo portare tutto con me anche il mio zaino che era sul cavallo pieno di roba, ma lui cioè il tenente mi dice: te lo porteremo noi e lo riprenderai al nostro arrivo. Ma, quando sono arrivato a Larissa mi han condotto prima alla caserma dove dovevano arrivare anche i compagni, e poi di nuovo è partita e mi porta a ricoverare al nostro ospedale ed in questo caso restai senza zaino, senza nulla da cambiarmi, e da quel giorno non ho visto più un paesano.
All’ospedale il giorno dopo trovo De Paulis Antonio e qui son restato fino al 28 Settembre, poi sono uscito assieme a me viene anche De Paulis, ma la sera che siamo usciti dall’ospedale le nostre cartelle cliniche le prendeva un maresciallo tedesco, e datosi che sopra la cartella veniva scritto il mestiere in cui si esercitava e vista la mia cartella con scritto sopra “fabbro” allora mi chiama e mi dice: tu specialista vai a lavorare come civile all’officia delle SS ed io gli rispondo che non sono un fabbro ma “maniscalco” ed allora mi risponde “sciaiser” (scheisse, ndr) che vuol dire merda, ed in quindici che eravamo mi manda alle caserme dove per la seconda volta ci han chiesto di firmare, ma nessuno ha voluto.
La mattina seguente ci fan partire con il treno e dopo un giorno e mezzo di percorso, finalmente siamo arrivati a Salonicco. Qui si smonta dal treno e sono già pronte quattro guardie con moschetto carico e baionetta innestata, per accompagnarci come i più pessimi delinquenti del mondo. Percorsa tutta la città ci portano in una caserma dove prima c’era il comando tappa Italiano, ed ora tutto al contrario era diventata il campo dei prigionieri Italiani. La mattina del 1° Ottobre ci mandano a lavoro digiuni e si tratta di scaricare vagoni di cemento, e come qualcuno si fermava un secondo, si sentiva subito la guardia gridare loss e snell, che vorrebbe dire “via e svelto”. E questa la parola d’ordine di tutta la giornata. A mezzo giorno si va a mangiare e cosa si trova? Un mescolino che poteva essere una tazza da caffè, di fagioli e patate, 200 grammi di pane che subito l’abbiamo divorato dalla fame che avevamo.
Dopo un’ora di riposo si parte di nuovo a lavoro e qui si torna a casa solo alle 7 di sera, ma quando s’arriva a casa qui so’ dolori, stanchi dal lavoro e con gran fame, ma non c’è nulla da mangiare solo che mezzo tazzino di caffè ma… acqua calda. Quindi si va a dormire, ma la fame vince il sonno e non dà pace e la mattina alle 6 di nuovo si va a lavoro, e la fame si fa sentire sempre più forte. Dopo 3 giorni che si era qui ci hanno incominciato a dire di firmare per andare con loro, ma noi sempre duri, magari morire dalla fame ma non andare con loro. Questa domanda di firmare era tutti i giorni, cioè mattina e sera per colazione e cena.
Un bel giorno ci obbligano forzatamente da dover firmare alcuni moduli, e da firmarli ad ogni costo, o come combattenti oppure come lavoratori, e se non si voleva aderire a nessuna delle due domande, si cancellavano tutte e due, ma si doveva firmare lo stesso. Ma c’era un tranello che sopra alle due domande c’era un rigo scritto così: “Riconosco il partito repubblicano fascista ed aderisco a combattere a fianco dell’esercito tedesco”. Noi, vista questa frase, nessuno abbiamo firmato detti moduli, a mezzo giorno rientrati dal lavoro ci mandano in camerata e poi fanno subito l’adunata.
Scesi giù in cortile ci domandano se avevamo firmato questi moduli, ma nessuno si fa avanti, quindi un disgraziato d’interprete italiano ci dice: se non firmate questi moduli vi mandano a raccogliere i morti in Russia, oppure a tagliare i reticolati in linea sotto le cannonate dei Russi. Ma noi non ci siamo affatto spaventati, pensando che ci mandano dove vogliono ma con loro non andiamo a nessun posto, anche a sottoporci alla fucilazione. Vista la nostra insistenza che nessuno aderiva alle loro domande, un tenente tedesco ne conta con la mano il numero di 240 che subito ci manda in camerata a prendere i nostri zaini per partire, e per punizione non ci fa dare nemmeno quei quattro cucchiai di rancio.
Dopo essere pronti arrivano 25 guardie ed arrivate vicino a noi caricano i moschetti e innestano la baionetta e ci fanno uscire dalla caserma e loro si mettono a destra e sinistra di noi in distanza di quattro metri uno dall’altro. Ci conducono circa a 300 metri dalla caserma e qui si fermano. Dopo quasi dieci minuti arriva un’autocolonna e ci lasciano montar sopra e si parte. Dopo due giorni di viaggio e senza mangiare si arriva di nuovo a Larissa, cioè dove mi trovavo prima. La notte che siamo arrivati ci han lasciati dormire sulle macchine, poi al mattino ci inquadrano, ci contano come minimo dieci volte e poi si parte, così ci conducono alla piazza centrale e ci portano dentro un albergo, a pian terreno. Qui si lasciano i nostri zaini e si va subito alla stazione. Dopo due giorni senza darci da mangiare ci fanno scaricare camion carichi di paglia e caricarla di nuovo sui vagoni. A mezzo giorno ci portano a casa e ci danno da mangiare una galletta e 50 grammi di formaggio italiano, questi sono i viveri di tutta la giornata. Alle ore 13 cioè l’una di nuovo a lavoro fino alle 7 la sera.
Due giorni dopo ci lasciano fare la cucina per conto nostro ed i viveri sono i seguenti: 33 grammi di pasta a ciascuno per condimento a 240 persone un quartino d’agnello che come massimo pesava un chilo e mezzo, 5 grammi di zucchero per il caffè al mattino, poi 300 grammi di pane da maiali che forse nemmeno loro l’avrebbero mangiato, 15 grammi di margarina grasso di carbone, e 20 di marmellata. Con tutti questi viveri si doveva lavorare 12 ore al giorno portando casse di munizioni da 50 e fino a 70 kg sulle spalle. Ora abbrevio perché sarebbe troppo lunga e vorrei un libro per descrivere tutte le sofferenze ed i sacrifici passati sotto i malvagi tedeschi. Qui resisto sotto simile lavoro sino al 26 gennaio 1944, ma datosi che lo stomaco mi tormentava forte dai grandi bruciori il giorno 27 Gennaio vado a lavoro allo stesso posto del giorno avanti, cioè al cimitero tedesco ove bisognava scoprire le tombe dei morti sino a trovare la cassa, dopo bisognava metter di nuovo dentro la terra e battere con un peso di circa 20 kg.
Ma questa mattina, erano circa le 11 e mezza, che in due ne avevamo completate due ed incominciavamo la terza, quando è venuto un maresciallo tedesco e ci ordina a scalzarne un’altra davanti a lui. Ma qui è il mio colpo fatale quando al terzo colpo di vanga che fo mi viene fuori un braccio con ancora la carne attaccata poi un osso della gamba, poi ancora due crani. Qui divento di tutti i colori e stavo quasi per cadere per terra quando detto maresciallo guarda l’orologio e pronuncia “mitac” (mittag, ndr), che vuol dire mezzo giorno, quindi si va a mangiare. Ma io lungo la strada non mi fidavo di camminare ma a stenti sono arrivato anch’io e con tanta fame che regnava non ho potuto mangiare, mi butto sul mio pagliericcio ed aspetto che mangiano tutti. Dopo chiamo l’infermiere, mi fo misurare la febbre e ce l’ho a 38 e 5, quindi a lavoro non vado, verso le 5 la fo misurare di nuovo ed è arrivata a 39, quindi la mattina seguente marco visita e vengo ricoverato all’ospedale per influenza e gastrite allo stomaco sino al 7 febbraio.
Detto giorno a mezzo giorno mi chiama l’infermiere dicendomi: tu preparati, alle due parti con la tradotta ospedaliera. Alle quattro la sera siamo partiti da Larissa e dopo ben 7 giorni di viaggio e di fame che sempre non mai mancava siamo arrivati all’ospedale italiano di Zeithain, in Germania. Qui si smonta dalla tradotta ed entriamo all’ospedale. Ma prima di entrare ci fanno la rivista alla nostra roba e ci tolgono tutto, coltelli, sigarette, sapone ed altre cose, lasciandoci solo quanto s’aveva addosso, nemmeno un cambio, e poi si va al bagno, qui troviamo italiani e russi che entravano anche loro in ospedale e venivano dalle fabbriche, ma non fo nessuna esagerazione, a vederli nudi sembravano scheletri umani mummificati e non altro, buona parte di loro tutti con tubercolosi. Dopo il bagno ci hanno mandato ai reparti ed io sono andato al reparto Chirurgia, baracca n. 37. Qui resto fino al 28 Febbraio, poi fui trasferito alla baracca n. 53. Quel che si mangiava qui era 4 giorni la settimana 250 grammi di pane e tre giorni 300 grammi, 20 grammi di margarina più un litro di succo di rape a mezzogiorno e la più grande razione erano tre patate.
Qui son restato fino al 25 Aprile ’44, poi sono andato in uscita e mi hanno mandato al IV B, cioè un Campo di concentramento dei prigionieri di ogni razza e nazione. Ci hanno condotti dal campo degli Italiani e ne hanno messi 300 per baracca e si dormiva lì dentro come le sarde entro il bidone, quindi dopo sei giorni mi sono fatto mettere in uscita per andare a lavoro come fabbro. Il 1° Maggio mi mandano in fabbrica, il 2 mi conducono al lavoro al posto di fare il fabbro devo fare il facchino, portando casse in spalla di ogni dimensione e con i caposquadra dietro che ti dicevano loss, snell, arbait! che significava “via, svelto, a lavorare!” E non ci reggevamo in piedi dalla fame e con tutto ciò si prendeva qualche pugno, spintoni d’ogni genere, e sempre abbreviando qui ho resistito tre mesi e mezzo. Poi sono stato colto da pleurite e di nuovo ricoverato allo stesso ospedale e precisamente il giorno del mio compleanno 18 Agosto 1944, col peso di 49 chilogrammi.
Qui vengo ricoverato al Campo A, cioè campo dove si ricoverano pleuritici deperiti e quelli che dal deperimento erano venuti gonfi. Io sono stato ricoverato alla baracca 40 e dopo tre giorni che ero lì il tenente D’Adamo mi mette a supplemento extra che consisteva in più della razione a 200 grammi di pane, 100 di ricotta, un cucchiaio di zucchero e 20 grammi di margarina. E con il detto supplemento in quattro mesi avevo aumentato 4 kg. Di peso, quindi pesavo 53 kg. Qui sono restato fino al 23 Marzo del 45. Poi siamo stati trasferiti all’ospedale internazionale di Imorgan. Qui il trattamento del pane la stessa razione il rancio era mezzo litro, ma si prendeva una discreta razione di patate che ne erano 10 o 12.
Nel mentre e trascorsa la fine del mese di marzo e siamo in aprile qui incominciano a sentirsi buone novità che gli Alleati, compresi i Russi, avanzano su tutti i fronti e si sperava che presto fossero arrivati a liberarci anche a noi dalle sofferenze d’inferno. Giunti verso il 15 di Aprile, incominciamo a sentire durante la notte i primi colpi d’artiglieria ma lontani, però la sirena era quasi in continuo allarme e nell’aria tutto il giorno questo rombo di cannoni man mano si faceva sentire più forte. Senonché il giorno 18 Aprile il Maggiore tedesco chiama i nostri ufficiali medici e dice loro che noi Italiani bisognava partire assieme a loro se nel caso dovevano sgombrare, ma la risposta dei nostri ufficiali fu quella di dire “i nostri malati son tutti pleuritici tubercolari e quindi non sono in condizione di poter camminare”. Allora gli ha detto “assumete voi la responsabilità dei vostri malati” e così ci lasciarono.
Il giorno 19 fu tutta la giornata in allarme. La sera verso le 6 è suonato l’allarme d’invasione ed allora tutti i tedeschi civili con le lacrime agli occhi e un pianto dirotto preparavano le loro valigie che a sua volta chi le legava sulla bicicletta chi caricava i carrettini, abbandonavano la loro casa e via. Il giorno 20 dalla mattina il cannone si faceva sentire ancor più forte e tutto il giorno è continuato così compresa anche la notte, ma veniva sempre più vicino, quando alla mattina alle ore 5 mi alzo e vado fuori le guardie si preparavano per andare via. Dopo circa tre quarti d’ora si sentono le mitraglie che cantano intorno al paese, allora noi ci siamo messi subito in posti più riparati dalla camerata che era soggetta al tiro, man mano si sentono sempre più vicino. Dopo un po’ sentiamo le prime raffiche dentro l’ospedale e dirette all’orologio, poi un forte grido, sono i Russi che sono già dentro l’ospedale. Allora si balza tutti fuori, ci salutano ci offrono le sigarette e fanno un giro all’intorno dell’ospedale e poi vanno via.
Più tardi arriva un Colonnello russo, ci fa uscire di nuovo tutti fuori facendoci inquadrare per nazionalità, poi ci fa uscire dal cancello di reticolato che ci aveva rinchiusi ben 19 mesi, e quando siamo fuori di qui tutti si è fatto un lungo respiro esclamando che aria di paradiso, facendo come l’uccello che per tanto tempo si trova rinchiuso dentro la gabbia, e poi quando viene il giorno che il padrone si dimentica di chiudere la gabbia e lui fugge veloce e contento verso il bel cielo sereno. Quindi condottici entro il paese ci fa fermare e poi “fronte a sinistra” ed incomincia a fare un discorso per reparti, cioè per nazioni, e venuto davanti a noi dice queste parole: “In Italia ci sono ancora i tedeschi ma poco vi resteranno, sappiate che molte migliaia di Italiani sono già stati rimpatriati, quindi voi fra pochi giorni partirete per raggiungere la linea ferroviaria e per linea Varsavia-Odessa, qui sarete imbarcati e condotti in Italia”. Finito il suddetto arrivano due aerei tedeschi ed incominciano a mitragliare, quindi ci siamo ricoverati entro le case, che le avevano già aperte i russi, e qui ci han fatto prendere galline, conigli, agnelli ed ogni altra roba. Poi abbiamo fatto una bella passeggiata e quando siamo rientrati abbiamo trovato un ricco spezzatino di maiale e patate abbondanti, in più entro la cucina sembrava un grande mattatoio di carne di maiali, galline, tacchini, conigli, vitelli, insomma carne d’ogni sorta.»