I social networks e i reati di diffamazione
Le offese su Facebook contro persone individuabili integrano il reato di diffamazione. La Cassazione, con la recente sentenza del 24.3.14, ha stabilito che pubblicare frasi denigratorie su un social network nei confronti di persone agevolmente identificabili dagli utenti costituisce offesa all’altrui reputazione e, quindi, integra il reato di diffamazione.
La Cassazione ha affrontato il problema, molto diffuso nella realtà dei social network, relativa alla lesione dell’onore e reputazione di soggetti non identificati direttamente, ma comunque agevolmente identificabili all’interno di un contesto sociale ove opera il soggetto diffamato. L’imputato, in primo grado, era stato condannato per aver pubblicato nel proprio profilo Facebook frasi denigratorienei confronti della onorabilità di alcuni colleghi di lavoro, esprimendo anche giudizi negativi sulla loro correttezza personale e sul posto di lavoro; si trattava di affermazioni relative alla percezione di straordinari e alla vittoria di un concorso da parte di un collega. I giudici di merito avevano escluso la configurabilità del diritto di critica, per mancanza del requisito della continenza, poichè nei testi pubblicati vi erano palesi aspetti di irrisione che travalicano la mera critica ai fatti evocati;ugualmente i medesimi giudici avevano confermato che il reato di diffamazione, consistente nell’immissione nella rete internet di frasi offensive e/o immagini denigratorie, deve ritenersi commesso nel luogo in cui le offese e le denigrazioni sono percepite da più fruitori della rete, pur quando il sito web sia registrato all’estero (confermando altre sentenze come Cass. Pen. 21 febbraio 2008). L’imputato, titolare del profilo facebook, aveva costruito la propria strategia difensiva affermando, da un lato, la impossibilità di identificare con sufficiente certezza la persona offesa e, da altro lato, che le frasi diffamatorie erano state indebitamente pubblicate da ignoti intrusori che avevano commesso un accesso abusivo nel proprio profilo. La Cassazione ha ribadito che per la sussistenza del delitto di diffamazione non è necessario indicare nominativamente la persona, ma è sufficiente solo che la persona sia indicata o descritta
in modo tale da poter essere agevolmente, e con certezza, individuata. Secondo la giurisprudenza, l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione, in mancanza di indicazione e/o riferimenti specifici, deve essere deducibile dalla stessa rappresentazione oggettiva dell’offesa, che si desume anche dal contesto in cui è inserita (ved. Cass. Pen. 2135/99); nel caso di specie, per il tenore della frasi utilizzate, per la categoria di utenti di facebook, e per la circolazione delle frasi nell’ambiente di lavoro, era possibile senza alcuna difficoltà risalire alla persone offesa. I giudici di legittimità, inoltre, non hanno dato credito alla tesi difensiva che la pubblicazione delle notizie diffamatorie fosse imputabile a terze persone , impossessatesi delle credenziali di accesso del domicilio informatico, in quanto tale costruzione difensiva era una mera possibilità teorica senza alcun riscontro
di prova, mentre il contenuto delle frasi denigratorie consentivano tranquillamente di escludere che una persona rimasta ignota potesse essere a conoscenza di fatti così dettagliati della vita lavorativa della parte offesa. Di conseguenza, essendo identificabile la persona offesa e potendosi escludere l’abusiva intrusione di un terzo nel profilo facebook dell’imputato, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la sentenza di condanna.