La ricerca formale e la sperimentazione linguistica hanno un peso rilevante nella fotografia di Aram Kirakosyan, i suoi lavori hanno sempre una solida struttura visiva e il suo segno fotografico è deciso e impattante. Questo formalismo, tuttavia, non irrigidisce e non riduce la forza della sua fotografia che balza agli occhi in tutta la sua pienezza semantica ed estetica.
Il poeta Osip Mandel’śtam scrive: «gli uomini dalle grandi bocche e dagli occhi trapanati direttamente nel cranio: gli armeni». Mi ha colpito molto quest’immagine cruda, da parte mia ho sempre colto un velo di tristezza negli occhi degli armeni che ho incontrato e questo me li ha fatto amare subito.
Guardando il lavoro di Aram mi si palesa un possibile senso per queste parole. Vedere non è una scelta, ma è forse un destino, un destino doloroso “trapanato direttamente” nella struttura ossea del vivente, dell’uomo o almeno dei veggenti. Fotografare è trapanarsi il cranio con una macchina fotografica. È come puntarsi una pistola alla roulette russa. Aram Kirakosyan come ogni fotografo ha lungamente praticato questo gioco su di sé.
Ogni presa di coscienza passa attraverso l’autovisione: la “fase dello specchio” ritorna a più riprese nella vita di un uomo. “Chi è quel signore che
avanza l’inammissibile pretesa di essere me?” si chiedeva Paul Valéry. Ecco riaffacciarsi l’enigma dell’identità, l’Altro da sé e l’Altrove dimensioni speculari dell’esistente. “Lì si incominciano a vedere le cose” scrive Pessoa. L’Altrove è dove l’occhio si apre all’invisibile.
Paolo Dell’Elce