Esplorare perconoscere”, questo il motto di Davide Peluzzi, esploratore, nonché direttore della Explora Perigeo, orgoglio teramano, la cui opera è lodata e riconosciuta dall’intera comunità scientifica internazionale e insignita di medaglie e premi. Nato a Nerito di Crognaleto, montoriese di adozione, Davide ha effettuato importanti
scalate sul Monte Bianco, Monte Rosa, Cervino, ghiacciai islandesi, Himalaya ed esplorazione delle terre groenlandesi; ha redatto insieme al suo team, e grazie alla collaborazione con importanti università italiane progetti importanti come il Saxum2008, la Carta dei Popoli Artici, il Meteo Mundi e l’attuale Earth Mater di cui è stata allestita una mostra. Com’è nata la passione per l’esplorazione? Non so dare una risposta precisa. Ho il ricordo di un sogno ricorrente della mia infanzia. Ero in un tunnel buio che fortunatamente terminava con una montagna e il cielo… io correvo verso l’alto. Effettivamente l’esplorazione mi ha sempre affascinato. Solo dopo aver effettuato le spedizioni ho compreso, però, che richiede grande sacrificio. In questo periodo, in collaborazione con il Dipartimento di genetica di Bologna, stiamo studiando lo spostamento e la migrazione degli ominidi dall’ Africa. Siamo partiti da un interrogativo: “perché l’uomo si è spostato dall’Africa in varie parti del mondo? “Sicuramente ciò è avvenuto per cibo, benessere, ma soprattutto per esplorare, per scoprire l’ignoto. L’uomo vuole sfidare la morte ed è per questo che credo fermamente chel’esplorazione è insita in ognuno di noi. Lei ha compiuto esplorazioni in aree estreme; che sensazione ha provato nello sfidare la natura fino a quasi l’impossibile? I luoghi più estremi che ho visitato sono i Poli. La vita è davvero dura; non esiste il concetto di albero, sentiero, strada, spazio. Proprio questo ci ha spinto, sempre con il Dipartimento di genetica, a studiare le migrazioni al contrario; ci siamo chiesti perché gli Inuit, abitanti della Groenlandia, siano emigrati in un luogo così freddo e ostile. La nostra ricerca è in corso e con il progetto Saxum è iniziata la mappatura genetica delle popolazioni di etnia mongola, proprio per svelare il motivo che li ha spinti a stanziarsi in quelle zone impervie. Inoltre il progetto Earth Mater è legato alla ricerca dell’uomo dei ghiacci, il primo alpinista della storia: l’uomo di Neanderthal. Come si organizza una spedizione? Una spedizione artica o himalayana necessita di un’organizzazione molto complessa con almeno due anni di preparazione. Ogni spedizione, oltre ad avere un alto dispendio di tempo e risorse umane, necessita di risorse economiche e soprattutto della scelta giusta dei componenti della squadra esplorativa. Bisogna circondarsi di persone competenti e ci deve essere un alto senso della collaborazione. A tal fine organizziamo degli incontri preparatori a livello psicologico perché la mente si deve abituare alle condizioni estreme che la madre terra riserva ancor di più dal corpo. Ad esempio, nella regione artica la percezione del tempo è totalmente falsata. Nel periodo estivo non esiste la notte e in inverno non esiste il giorno, senza tralasciare la durezza della vita all’interno delle tende sui grandi ghiacciai della terra. Cosa prova ogni volta che riesce a portare a termine una spedizione? Non si ha nemmeno il tempo di realizzare il tutto perché nel momento in cui termina un’impresa, ne inizia un’altra. Ad esempio, appena rientrato dall’Himalaya ho sentito il bisogno impellente di tornarci per fare qualcosa di concreto per le popolazioni che ci hanno aiutato nella spedizione come i portatori di Sherpa e Tamang. Voglio ricordare che la nostra è ricerca scientifica, ma anche cooperazione internazionale e condivisione della nostra esperienza con gli altri al fine di comprendere e migliorare la vita sulla terra. Le nostre finalità sono legate sia ai simbolismi primordiali come il progetto “Pietre e popoli” con il suo messaggio di pace attraverso lo scambio di sassi, sia a importanti collaborazioni come quella con l’esperimento “Ermes” dei laboratori del Gran Sasso nello studio e la ricerca della radioattività delle rocce nei luoghi estremi. Hai mai avuto paura di non farcela? Certamente; la paura è l’essenza per andare avanti, è la forza. Ricordo un episodio. “Eravamo a 5500 m. in Himalaya sul ghiacciaio del Drolombao tra il Nepal e il Tibet. Tre dei nostri portatori, dopo aver percorso 130 km di valli e montagne della Rolwaling, decidono di fermarsi e tornare indietro abbandonando la spedizione. Il tempo da giorni era molto brutto, nevicava e le temperature erano sempre sotto zero; separarci significava metterci in guai seri. Il meteorologo Roberto Madrigali mi avvisava sul satellitare che una possente perturbazione si sarebbe stabilizzata sopra o meglio sotto i nostri piedi a 5500 m. La decisione fu difficile; eravamo lontanissimi da qualsiasi centro abitato e i portatori, spaventati anche dall’ambiente, continuavano a ripetere che gli dèi erano contrari e che saremmo andati incontro alla morte. Da capo-spedizione mi trovai in un momento critico: assecondare il volere dei portatori in difficoltà oppure continuare e convincerli a rimanere compatti, uniti? In quel momento pensai davvero di non riuscire a venir fuori da quella situazione estrema. L’area viene chiamata dagli Sherpa (etnia himalayana) “la Tomba”. Alla fine con grande forza interiore e con il supporto prezioso della guida Nimgmar Tamang, siamo riusciti a convincere i tre ragazzi sedicenni a proseguire il viaggio e tornare incolumi dalla valle del Rolwaling alla valle del Kumbu. Il futuro? La realizzazione di ulteriori progetti della Perigeo onlus, gruppo di ricerca che dirigo, nato dalla riunione di “amici – ricercatori” con lo scopo di apprendere e diffondere la conoscenza del sapere umano.