La recessione è una condizione macroeconomica caratterizzata da livelli di attività produttiva (PIL) più bassi di quelli che si potrebbero ottenere usando in maniera efficiente i fattori produttivi a disposizione. Si ha la recessione quando la variazione del PIL rispetto all’anno precedente è negativa; se la
variazione è inferiore all’1% si parla di crisi economica. Uno dei principali sintomi della recessione è quello della diminuzione del tasso di crescita della produzione. Seguono l’aumento della disoccupazione, la diminuzione del tasso di interesse, dato che manca la domanda di credito da parte delle imprese, l’aumento dell’inflazione, con il conseguente aumento dei prezzi. Quando tutto questo arriva a livelli estremi si parla di depressione dell’economia. Il 21/12/2011 la stampa scriveva: È ufficiale: l’economia italiana è in calo. Nel terzo trimestre del 2011, il Pil nazionale registrava una diminuzione dello 0,2% rispetto al trimestre precedente (pur essendo aumentato dello 0,2% se si guarda invece allo stesso periodo del 2010, e quindi anno su anno). La notizia non giunge inattesa e coincide con le aspettative degli analisti e dei mercati internazionali, ma la conferma dell’Istat sembra in qualche modo rendere ancora più cupo lo spettro della recessione. Nel primo trimestre del 2012 il prodotto interno lordo diminuisce dello 0,8% rispetto al trimestre precedente e dell’1,4% nei confronti del primo trimestre del 2011. E’ quanto rende noto l’Istat che specifica che tutte le componenti della domanda interna eccetto la spesa della Pubblica Amministrazione sono risultate in diminuzione. La recessione è tecnicamente conclamata, trattandosi del terzo trimestre consecutivo in cui il Paese registra un calo del Pil. Ad oggi, quattrocentottanta occupati in meno al giorno. Tanto ci è costata la recessione più grave del Dopoguerra. L’ufficio studi della Confartigianato ha elaborato uno studio sul mercato del lavoro dal 2007 a oggi. Gli occupati erano 23 milioni e 541 mila ad aprile 2008. Allora, una delle priorità dell’Italia era di aumentare il numero di persone che lavorano. Purtroppo la crisi mondiale ha cambiato il corso delle cose e la priorità è diventata un’altra: evitare la falcidia di posti di lavoro. A dicembre 2012 gli occupati sono stati calcolati dall’Istat in 22 milioni e 723 mila: 818 mila in meno rispetto a quattro anni e mezzo prima, 480 posti persi al giorno, appunto. E il tasso di occupazione (20-64 anni) è sceso al 61%. Infatti, se prendiamo a riferimento il tasso di variazione dell’occupazione previsto per il triennio 2013-2015 nel Def, cioè nel Documento di economia e finanza del governo, che è pari allo 0,6%, i livelli di occupazione pre-crisi verranno ripristinati solo nel 2025, cioè fra 18 anni. L’altro dato che colpisce è che in questi 5 anni a diminuire, di circa il 20%, sono stati gli occupati fino a 35 anni, scesi di quasi un milione e mezzo, mentre c’è stato un aumento di quasi 600 mila occupati con più di 55 anni. Abbiamo insomma molti più lavoratori anziani. Si tratta di una delle conseguenze dell’aumento dell’età pensionabile. Il poco lavoro che c’è è sempre più difficile da difendere. Spesso i dipendenti sono costretti ad accettare riduzioni di orario. Nelle situazioni più gravi intervengono gli ammortizzatori sociali, che negli ultimi 4 anni hanno raggiunto livelli record, per una spesa complessiva di 53 miliardi. Il futuro? Se di futuro si vuole parlare occorre una ripresa della reale attività economica, che importa un aumento dei posti di lavoro, una ripresa dei consumi e nel lungo una crescita del Pil.