Ciò che vorrei sentir dire o fare dai politici oggi è una cosa molto semplice: “autocritica” nella forma più genuina del termine. Sono anni che non si sente un politico fare autocritica. Se capita di seguire il marasma politico che contraddistingue l’Italia si vedono semplicemente personaggi che fanno il cosiddetto “salto della quaglia” per sopravvivere politicamente, o meglio per mantenere intatti i propri interessi personali. La Politica dovrebbe tornare a fare quello per cui è deputata, amministrare, interessarsi allo Stato e salvaguardare i cittadini. È attuale la querelle tra generazioni, ma non credo si debba distinguere tra “rottamatori” o “prima repubblica, terza, quinta…”; bisogna semplicemente mettere le basi reali per un futuro che poggi sul “merito” e sull’apertura, sia in campo lavorativo che politico e in ogni ambito dell’agire dell’essere umano, a persone nuove con capacità, meriti e idee fresche anche con il rischio di sbagliare. L’Italia ha l’aspetto di una balena spiaggiata che non ha proprio idea da dove ripartire o meglio, forse sì, ma nessuno ha la volontà di corciarsi le maniche e chinarsi a lavorare sul serio. Mi piacerebbe partecipare alla vita politica, ma più che altro, forse, vorrei semplicemente sentirmi decisivo, a partire dalla croce che si iscrive sulla scheda elettorale. A prescindere dal campo politico, vorrei potermi riconoscere in un progetto che si identifichi, in modo inequivocabile, con persone reali e non numeri inseriti all’interno di liste di partito sconosciute ai più, per ritrovarsi poi rappresentati da qualcuno che pensavi di un altro partito. Senza poter obiettare perché alla fine li hai scelti. Sulla questione “prendere in mano il proprio futuro” si potrebbero dire tante cose, e credo che la politica sia l’ultima soluzione per un giovane. Politica vista ormai come carriera o soluzione lavorativa è ciò che, in più di un’occasione, si nota , e non Politica intesa come servizio reso alla comunità e allo Stato. Il più delle volte i giovani chiedono spazio, considerazione e fiducia, perché si sentono capaci o vogliosi di mettersi in gioco, hanno piena percezione delle problematiche che devono affrontare e in alcuni casi hanno ottime soluzioni per superarle. Secondo me la domanda corretta da porre potrebbe essere: “Quante classi dirigenti sono state bruciate per mantenere lo “status quo” italiano? È possibile avere una classe dirigente” under 40″ se la media dei candidati alla Presidenza del Consiglio ha più di 65 anni? Ecco forse una posizione diversa dal dire “ma i giovani sono pronti?!”. Se si parla biecamente di spazio, sì che c’è, anzi qualsiasi persona già impegnata da anni risponderebbe “certo!”. Ad un attenta analisi, però ci si dovrebbe chiedere: “giovani di quale età?” o ancora “giovani che contano con le loro decisioni, o giovani che fungono da pupazzi? Credo che il mondo della politica, come quello del lavoro in Italia abbia delle serie problematiche di ricambio generazionale, dovute soprattutto a una distanza tra “formazione” scolastica (scuola superiore, università master ecc…) e “formazione” sul campo del lavoro. Due mondi che ancora oggi comunicano a fatica e quando lo fanno, a parte casi sporadici, parlano due linguaggi diversi. Non è un problema di gente che non va in pensione. Probabilmente, se ci fosse un fondo pensionistico stabile e sicuro per tutte le categorie lavorative, in molti avrebbero lasciato il loro posto di lavoro a favore di nuove classi generazionali. I giovani adesso si ritrovano in un limbo, abituati per decenni da un sistema istituzionale, che ha creato il mito del “posto fisso” statale, sono catapultati in una situazione per cui più si è aperti a cambiare lavoro ogni tre o cinque anni e meglio si riesce a divincolarsi sul lavoro. Rimane una questione di fondo, l’Italia non è un paese anglosassone.