Una buona citta’ di provincia, questo il desiderio che ognuno racchiude nel cuore. Parlo dei teramani che conservano il loro senso di identità territoriale, e che hanno la percezione di non desiderare una città troppo moderna, troppo progressista, troppo globalizzata. La “piazza”, nella sua concezione di luogo d’incontro e di condivisione, ha sempre rappresentato il cuore pulsante del tessuto urbano. Vi sono piazze più importanti, ma anche piazzette dove ci si incrocia e si chiacchiera, soprattutto in provincia. Guardo oggi, con tenerezza, quei pochi anziani che improvvisano, all’ombra del grande albero di Piazza Martiri, un piccolo spazio di incontro costituito da poche sedie pieghevoli e uno sgabello per ritrovarsi a giocare a carte, ultima testimonianza di una delle vivacità della “piazza”. Nelle strade del centro, molte attività commerciali hanno chiuso i loro esercizi e le scopri giorno per giorno. Una mattina vai spedita nel tale negozio e… lo trovi chiuso. Allora ti accorgi che le strade e le piazze della nostra amata–odiata città di provincia non hanno più la funzione che avevano, tanto da essere fondamentali per molte generazioni. Chi non ha mai pronunciato, quando si era ragazzi, la frase: “Ci vediamo a Piazza Dante?”. Ben venga il guardare avanti non restando, romanticamente, attaccati al passato. Ma l’appartenere a una città che bastava così com’era, senza tanti sussulti, credo, ci avrebbe reso più sereni, senza peccare di municipalismo. Viviamo ora una realtà che ha una dimensione anomala: nel non riconoscersi più nella cittadina del passato e nel non essere una presenza funzionale che corrisponde al concetto di “città”. Il divenire antropologico ha bisogno di maggiori certezze nel definire i propri luoghi e non rischiare che tutto il nostro tessuto urbano si trasformi in un “non luogo”, come Marc Augè antropologo francese, ha profondamente analizzato. I comportamenti sociali e le scelte culturali sarebbero più equilibrati se maggiore fosse l’interazione tra chi vive la città e chi l’amministra.