Un polo pubblico per il credito a medio e lungo termine riapre la strada alle Pmi e allo sviluppo dell’intero Paese
di Maria Paola Iannella – Dir resp.le Agenzia Giornalistica Economica d’Abruzzo
Assunto ormai come dato ufficiale (Banca
d’Italia) che dalla recessione in corso non si esce a causa del razionamento del credito, oltre che per le misure di austerity depressiva, vale la pena riflettere su quali possano essere le strade percorribili per concedere nuovo credito alle imprese a costi accettabili. La questione riguarda essenzialmente i crediti a medio e lungo termine, perché questi, certamente più di quelli a breve, ricadono sugli investimenti produttivi (impianti, tecnologia…) e cioè su qualsiasi possibilità di crescita futura.
Come sempre, copiare è più facile che inventare e, allora, dare un’occhiata agli altri Paesi per monitorarne le scelte può essere di sicura utilità. L’osannata Germania ha una grande banca pubblica che non ha mai cessato di erogare credito alle imprese (la KFW) e il Regno Unito ha cominciato a pretenderne una per le sue Pmi.
In Italia, nonostante le grandi manovre fallimentari degli ultimi anni, nessuno ci pensa neanche da lontano: l’eccitamento della grande privatizzazione delle banche che ha impazzato negli anni Novanta ci tiene al riparo da qualsiasi tipo di riflessione sul credito quale bene pubblico.
Pensare infatti alle banche come public utilities sovvertirebbe i grandi schemi sovraordinati in vent’anni di duro lavoro mediatico: convincere tutti che le banche debbano essere e restare solo private consente di conservare gli assetti proprietari con tutto ciò che ne consegue.
Eppure nel nostro Paese non sarebbe poi così difficile.
La Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale (Bdm – Mcc) non ha ancora una sua missione chiara, visto che nessun Governo fino ad ora gliene ha assegnata una: il vecchio Mediocredito centrale fu privatizzato ai tempi di D’Alema, poi comprato da Unicredit che mai lo ha messo a frutto tenendolo sottoutilizzato, alla fine ceduto a Poste Italiane.
Ora, un’operazione che si prospetta fattibile, è la seguente: passaggio della Banca al Ministero dell’Economia e delle finanze (o affidamento al controllo diretto di Cassa Depositi e Prestiti), ricapitalizzazione (abbiamo visto che i soldi da dare alle banche non mancano…), cooperazione e integrazione con Simest e Sace specializzate nel credito agevolato e nell’assicurazione alle esportazioni.
Una nuova figura così disegnata potrebbe ben svolgere le funzioni di: credito a medio e lungo termine su tutta Italia, credito agevolato, istruttoria e cofinanziamento a Stato e Regioni per l’accesso ai Fondi Europei che oggi vediamo con il lanternino.
Tutto qui, non è poi così futuribile creare un Polo creditizio e assicurativo di natura pubblica destinato allo sviluppo delle imprese sia sul mercato “locale” che su quello dell’internazionalizzazione. La mezza convenzione ad oggi esistente tra Simest e Sace è una coperta corta e stracciata a fronte dell’attesa export bank italiana sulla quale si fanno solo chiacchiere, a bella posta e da anni…
Ma v’è di più. Nulla impedisce di creare una banca ex novo specializzata nel credito a lungo e medio termine, oppure di allargare le competenze della Cassa Depositi e Prestiti dando vita autonoma ad un suo comparto creditizio per le imprese (soluzione più perniciosa, che richiederebbe un cambio di statuto, stante oggi la sua missione nel finanziamento agli enti locali).
Le soluzioni testé proposte, e da più parti nella letteratura di settore, richiedono però un’inversione totale della rotta italiana: riqualificare il settore creditizio con una presenza pubblica e sottrarlo al bello e cattivo tempo degli operatori privati.
Una sfida non da poco: acquisire che il credito è un bene pubblico significa fare scelte diverse da quelle che farebbero i banchieri privati, concentrati sul profitto a breve anziché su quello del lungo periodo (alias, crescita economica del Paese). Non c’è guadagno alcuno per la collettività nel prestare denaro alle banche se lo Stato, con quello stesso investimento, non entra come azionista di riferimento di lungo termine anziché come socio finanziario interessato al profitto immediato (e per l’eventuale non restituzione ci sarebbe solo l’emissione di azioni della banca: ancora…)
Il caso di Monte dei Paschi è emblematico per tutti: ha dimostrato che spostare gli investimenti dal credito imprenditoriale ai Titoli di Stato non è precisamente un affare, e che porterà il territorio a perdere una banca di riferimento: dietro l’angolo, infatti, c’è l’acquisizione straniera che quasi certamente comprerà a quattro soldi depauperando di un altro pezzo il nostro sistema finanziario.
Se il credito è uno degli snodi strategici della ripresa, insieme all’energia, alla mobilità urbana e all’ambiente, non può essere abbandonato, o meglio svenduto, perché da esso dipende il nostro futuro di Paese. Allora, dobbiamo familiarizzare con il concetto che se lo Stato salva una banca deve entrare nel suo capitale per tutelare un investimento che ha fatto con i soldi dei suoi contribuenti (noi italiani), e che deve essere perseguito per malaffare qualora la risani e la rivenda al miglior offerente: un danno con dolo al quale abbiamo già assistito silenti in diverse occasioni.
Con il prestito non ci sono misure per controllare che i nostri soldi siano spesi bene, anzi, abbiamo visto che alcune banche usano i soldi pubblici non per fare pulizia nel proprio portafogli ma per sostenere l’impalcatura costosissima di azionisti, obbligazionisti e manager.
E’ chiaro che banca pubblica non significa nazionalizzare (che è la sostituzione di burocrati a manager privati) ma spostare l’obiettivo dagli interessi privati e individuali a quelli sociali e collettivi.
Le iniezioni da parte delle banche centrali, fatte di denaro pubblico, hanno tamponato la crisi del 2008 per restituircela decuplicata e con un debito che da privato è diventato pubblico. Facile è stato spostare il discorso sulla necessità di ridimensionare il welfare e contrastare il debito pubblico con le tasse. Siamo in Truman Show: spettatori del più grande fenomeno di socializzazione delle perdite di tutta la storia, abbiamo salvato banche e società finanziarie con 14 miliardi di dollari!! (Financial Stability Report, giugno 2009), la metà del Pil di Usa e Europa messi insieme.
Insomma, trasformare, anche con accorpamenti, le banche commerciali private in banche pubbliche restituirebbe il credito alle piccole e medie imprese – che non possono ricorrere, come fanno le grandi, ai mercati obbligazionari – e al credito sociale per lavoratori e famiglie (casa, scuola eccetera) ricollocando gli istituti nei Territori come “persone” affidabili e credibili, con tutte le conseguenze che da questo discendono.
Concludo con un interrogativo che vuole solo aprire alla osservazione di un possibile orizzonte futuribile. Perché non provare a rendere l’Abruzzo portatore di un grande cambiamento – la rimozione del tabu nei confronti della proprietà pubblica delle banche – e magari ragionare cominciando proprio da qualche grande gruppo presente sul nostro Territorio?