Puchet, capitale della Thailandia, è una meta tra le più desiderate dal turismo occidentale. Un paradiso di palme e sole che invece cela uno squilibrio sociale forte. E così, a un passo dall’ eden, si spalanca l’inferno. La vicenda di Denis Cavatassi è un racconto dell’assurdo kafkiano che bene si sposa in questo mondo così distante dal nostro, dove la percezione della legge è totalmente diversa da quella che ci appartiene. Ristoratore, 43 anni, di Tortoreto, nella notte del 19 marzo
scorso viene arrestato dalla polizia thailandese con la gravissima accusa di aver organizzato l’assassinio del suo socio in affari, il toscano Luciano Butti, ucciso quattro giorni prima a colpi di pistola. Insieme a Cavatassi, che da subito si proclama innocente, vengono fermati tre thailandesi, tutti accusati di essere gli autori materiali dell’omicidio, insieme altre due persone del posto tuttora ricercate dalla polizia locale. Secondo gli inquirenti, il tortoretano vantava crediti nei confronti dell’imprenditore toscano, motivo che lo avrebbe spinto ad assoldare un sicario – insieme agli altri imputati – dietro il pagamento di 150mila baht (circa 3mila e 500 euro). Ad incastrare Denis, sempre secondo le autorità thailandesi, ci sarebbero un bonifi co di 30 mila baht (715 euro) a favore del suo dipendente Prasong Yongjit, organizzatore dell’omicidio e principale accusatore di Cavatassi, e due telefonate dal cellulare dello stesso Yongjit a quello del teramano. La giustizia avvia il suo farraginoso processo di avvicinamento alla presunta realtà. Una lentezza che non impedisce a Denis Cavatassi di essere rinchiuso nel carcere della capitale thailandese. Un luogo descritto dalla sorella Romina come “un mattatoio, dove una capienza di appena 500 posti viene colmata con oltre 1200 detenuti reclusi”. La donna racconta di un mese passato nell’inferno dell’incertezza: “Per molti giorni non ci hanno concesso di vedere Denis, se non per pochi minuti. Addirittura, durante il lungo ponte dato dal Son Graat, il loro capodanno caduto nel fine settimana del 16 e 17 aprile, ci hanno impedito qualsiasi contatto, perché durante questi festeggiamenti tutto è bloccato. Una situazione drammatica vissuta dalla mia famiglia. Le autorità giudiziarie ci hanno negato ben tre domande di rimpatrio su cauzione avanzate dai nostri legali, non dandoci alcuna spiegazione valida. La motivazione, per quanto mi riguarda, può essere fatta risalire al fatto che mio fratello è uno straniero e per questo temono possa scappare”. La testimonianza di Romina si fa ancor più violenta nel raccontare le condizioni igienico-sanitarie drammatiche nelle quali è costretto a vivere il fratello dal giorno del suo incarceramento. “Denis è stato recluso in una stanza comune dove è costretto a dormire per terra, senza nemmeno un materasso, stipato con altre centinaia di detenuti che condividono un unico bagno comune: direi una situazione più vicina ad un allevamento di polli, piuttosto che ad un carcere. Dopo i primi dieci giorni circa, mio fratello ha avuto una febbre che lo ha debilitato molto, nonostante fisicamente abbia combattuto con grande forza di volontà. Temo per la sua incolumità, il carcere lo sta annientando psicologicamente”. Un grido dall’allarme che tradisce una profonda confusione. “Avrebbero dovuto rilasciarlo su cauzione perché gli inquirenti hanno in mano davvero ben poco di concreto – conclude Romina – Io e la mia famiglia ci troviamo di fronte ad un sistema che non garantisce umanità e giustizia. Una situazione che rasenta la follia paragonabile a quella dei film. Rimango dell’idea che mio fratello sia stato incastrato dalla sua bontà. Se avesse rifiutato il prestito richiestogli dall’uomo assassinato, ora non si troverebbe in questa situazione degna di un romanzo dell’assurdo. La sua vita è in grave pericolo, Denis deve essere tirato fuori di lì il prima possibile”.