RAPPORTO DALLE “ZONE CALDE

ONUNato e  cresciuto a Teramo”. Roberto Ricci, laureato in legge,  esperto in diritto internazionale,  inizia così il racconto della sua vita che lo ha portato a ricoprire l’incarico di funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani: “Come spesso accade, sono finito all’ONU un po’ per sbaglio, perché la vita ti sorprende, ti fa prendere strade diverse da

ciò che sembra apparentemente prestabilito”.“Dopo la laurea in  giurisprudenza, – prosegue nel racconto –  andai a Edimburgo per imparare l’inglese,lì  conobbi  una ragazza olandese di cui mi innamorai  e sono rimasto  invece di andare in Spagna per imparare anche lo spagnolo.  In quel periodo frequentai anche  un Master in Diritto Internazionale e Diritti Umani. La mia aspirazione era il  volontariato  nel campo dell’aiuto umanitario, ma quando mi proposi alle organizzazioni, mi dissero che il mio curriculum non era propriamente adatto ‘a  scavare pozzi, dove invece è necessario saper scavare’. Quindi, facendo buon viso a cattivo gioco, ho cercato di sfruttare al meglio il master in diritto internazionale specializzandomi e frequentando altri corsi, anche perché, tornato in Italia, mi scontrai con quella che è purtroppo una brutta caratteristica italiana, e cioè che tutto ciò che fatto all’estero non vale. La delusione delle mie aspettative derivata soprattutto dalla logica delle ‘raccomandazioni’  che  spopolava in quegli anni  e a cui non sono mai riuscito a piegarmi mi spinsero addirittura a chiedere di rinunciare al passaporto italiano.Nel frattempo ero senza lavoro, affiancai Gigi Montauti nel suo progetto della Coppa Interamnia, esperienza di cui ho un bellissimo ricordo. Bellissima persona lui, bellissima l’idea dietro al progetto. Il valore del messaggio dello scambio e dell’incontro di diverse culture. Comunque, grazie agli studi e alle lingue, riuscii all’inizio degli anni ‘80 a incontrare  delle persone che lavoravano in organizzazioni non governative e con il Centro Volontari Marchigiani andai a lavorare due anni a Hong Kong sempre nell’ambito dei diritti umani. Anche quella fu una bellissima esperienza. Successivamente,  lavorai alla campagna internazionale contro le mine. In quella occasione ebbi modo di incontrare Gino Strada. Lui è stato un po’ il mio tutore. Stava fondando Emergency  e con lui si aprirono tante porte e cominciammo a lavorare e parlare  di diritti umani a livello internazionale.Poi la crisi economica del ‘94 portò ad una drastica riduzione di fondi per le ONG, perché in genere quando ci sono momenti di crisi si taglia soprattutto sulla società civile e nonostante il mio fosse un lavoro di volontariato, rimasi comunque fermo e per un breve periodo tornai a Teramo dove lavorai per il fotografo Lagalla.” Ma l’obiettivo di Roberto Ricci è tornare ad occuparsi di volontariato così continua a frequentare corsi di preparazione e in occasione di un convegno internazionale a Strasburgo, sulla via del ritorno, a Ginevra,  incontra una persona che lavora alle Nazioni Unite:  “Questa persona visionò il mio curriculum- riprende a raccontare Roberto –  e  mi propose di partire per il Rwanda. Accettai e nel settembre del ‘94 partii per il paese africano, dove un terribile conflitto interetnico, finito in genocidio, aveva lasciato un paese che definire devastato è un eufemismo”.Cosa può raccontare di quella esperienza?“È stato traumatizzante prendere atto della terribile situazione. Ho visto gli effetti della violenza più aberrante sia sulle vittime che sui soccorritori.Nelle  situazioni di estrema emergenza, come quelle in cui ho lavorato,   non è possibile definire o prevedere i comportamenti delle persone per quanto esse siano preparate. Parlo di volontari, militari, soccorritori, che  seppur preparati all’orrore che dovevano affrontare, ne  hanno portato i traumi per molto tempo. Ho visto uomini forti  come i militari crollare, perdere il controllo,  traumatizzati in modo definitivo  ma anche  giovani infermiere, ragazze  apparentemente fragili che invece si sono rivelate estremamente efficienti. Di zone “calde” nel mondo ce sono ancora tante… Sì, da allora sono entrato nell’Alto Commissariato dell’Onu per i Diritti Umani e ho continuato a lavorare in altre zone ‘calde’: in Iugoslavia dal ‘96 al ‘98, a Vukovar, a Zagabria, in Bosnia,   ovunque ho assistito a scene molto cruente”.  Cosa è cambiato nel  suo lavoro, dopo l’11 settembre?“Il diritto internazionale si ispira al principio che l’essenza umana debba assolutamente essere  rispettata. Nel dopoguerra le nazioni agivano in ossequio a questo principio e c’era una uniformità di comportamento internazionale, ma dopo l’11 settembre questo principio sembra sempre più spesso ignorato, in nome di una lotta che non riconosce più regole, ma deroghe”. Oggi sembra ci sia  una forte mobilitazione di aiuti, organizzazioni, agenzie che si muovono in risposta di eventi sia naturali che bellici. Secondo lei, va tutto a buon fine?“Ci sono organizzazioni, come la Croce Rossa, Emergency, Medici Senza frontiere (che ho visto personalmente all’opera) estremamente efficienti e spesso risolutive in questi casi. Sono strutture che conoscono perfettamente come agire nel modo più utile possibile e a volte sono anche  l’unico presidio di aiuto, ma non c’è dubbio che l’intervento internazionale è diventato un business e anche se nel nostro settore (dei diritti Umani) non ci sono soldi, ci sono tantissimi sciacalli che approfittano di queste organizzazioni. A mio avviso sono troppe  e spesso fanno solo  riunioni dove non si parla di nulla”