Il decreto Gelmini sulla riforma dell’Università ha aperto un ampio dibattito sul futuro assetto del mondo accademico e della ricerca in Italia e in una recente conferenza, tenutasi presso la facoltà di Scienze della Comunicazione, sono emersi numerosi spunti di confronto. Con il prof. Luciano D’Amico abbiamo cercato di fare un’analisi della situazione, partendo dalle cosiddette criticità del decreto. “Le criticità emerse dalla conferenza – spiega il preside
sono essenzialmente le stesse rilevate a livello nazionale e consistono principalmente in questo: indipendentemente dai risultati conseguiti, negli ultimi due, tre anni, sono stati apportati tagli alle risorse fi nanziarie di importi notevolissimi.
Questi tagli si traducono immediatamente in criticità, perché fi siologicamente tutte le università, non solo Teramo, se ben gestite, investono parte rilevante delle risorse fi nanziarie che ricevono in spese per il personale. Compito dell’università è sviluppare ricerca e promuovere la didattica. In entrambi i casi sono necessarie le persone. Non produciamo automobili, non abbiamo costi industriali. Le strutture universitarie presentano quindi costi assolutamente rigidi, la cui parte principale è rappresentata dagli oneri per il personale. Questo significa che tagli di tale rilevanza e percentuale mandano in crisi l’intero sistema, perché nessuna università è in grado di licenziare il personale, né sarebbe auspicabile tale situazione.” In cosa consiste la “meritocrazia” nell’ambito della distribuzione delle risorse? “Dal ‘97, in Italia, le università sono finanziate esclusivamente in base ai risultati. La meritocrazia in realtà non deve essere introdotta oggi, perché è stato fatto tredici anni fa, ed è stata introdotta con meccanismi che ancora oggi utilizziamo. Ovviamente con integrazioni e modifiche degli indicatori provocate dal raggiungimento di determinati obiettivi, quindi con un’evoluzione assolutamente positiva. Dal ‘97 le università ricevono finanziamenti sulla base dei risultati che inizialmente erano focalizzati sulla didattica, progressivamente c’è stato uno spostamento sulla ricerca. Attualmente, sul totale dei finanziamenti dell’anno precedente, viene defalcata una quota pari al 7% dell’importo annuo complessivo, e questa quota viene riassegnata, sulla base dei risultati ottenuti per il 66% dalla ricerca e per il 34% dalla didattica. Quindi la meritocrazia in questo senso non è una novità. Nel decreto legge in discussione, in un certo senso tutto questo viene confermato. Ciò che invece impone riflessione sono i nuovi modelli di governance del sistema, in cui si vuole rafforzare una componente anche esterna degli organi di governo, il che non è necessariamente un bene, perché qualsiasi università è un organismo assolutamente ed enormemente complesso. E perché funzioni non è pensabile che il reclutamento degli organi di governo sia fatto banalmente all’esterno. Può approfondire? “Cosa succederebbe se aprissimo il consiglio di amministrazione della Fiat a rappresentanti del territorio, semplicemente prelevandoli e immettendoli nel cda? Probabilmente i risultati non sarebbero utili in quanto, sebbene autorevoli, potrebbero non avere sufficienti strumenti di comprensione del processo. Il funzionamento dell’università è un processo altrettanto complesso e senza le necessarie conoscenze, è molto difficile programmare un’attività didattica o individuare i settori della ricerca che vanno potenziati, soprattutto quelli in cui va creata la vocazione dell’ateneo. Non possiamo più permetterci di avere un impegno nella ricerca indiscriminato, come non possiamo più permetterci un’offerta didattica indiscriminata. Dobbiamo decidere come concentrare le risorse e in questo disegno strategico è molto importante che i decisori siamo a conoscenza di tutto il sistema delle variabili che influiscono sulle decisioni e abbiano anche l’abilità tecnica nell’assumere tutte le decisioni giuste. Quindi questa apertura semplicistica all’esterno potrebbe non dare i migliori risultati. Parliamo dei “famigerati” tagli: “La formazione del personale docente è un processo impegnativo e lunghissimo. E’ necessario il completamento di un percorso universitario, il conseguimento di un dottorato di ricerca, un ulteriore periodo di sviluppo post dottorato, fi no al giorno prima in cui il docente o ricercatore va in pensione. Sarebbe quindi uno spreco di risorse un investimento così impegnativo per poi dire semplicemente ai ricercatori che non c’è più posto. Chi si è formato nella ricerca e vi ha trascorso gran parte della sua vita non può riuscire a restituire tutte le risorse che la sua formazione ha assorbito in un contesto diverso dalla ricerca. Quale potrebbe essere la proposta piu’ adeguata? “Sicuramente una crescente specializzazione degli atenei consentirebbe, molto più di troppo spesso citate politiche di aggregazione, fusione o assorbimento, di realizzare una politica di sistema. Su questo mi fa piacere citare l’esempio di Teramo che ha basato sull’individuazione di proprie vocazioni tutta la sua programmazione. Infatti nella didattica, e conseguentemente nella ricerca, copre delle aree che non sono coperte né dall’ateneo di Pescara, né da quello de L’Aquila. Sicuramente sarebbe utile un raccordo per aree vocazionali. Un autogoverno che privilegi lo sviluppo di aree vocazionali non può che giovare all’ateneo e al sistema più di una mera razionalizzazione amministrativa. Abbandoniamo l’argomento università. Lei è un economista, possiamo fare un’analisi della situazione, dal più ampio contesto nazionale al locale teramano? Che ruolo hanno le banche nella gestione della crisi? “Le banche fanno il loro mestiere. Valutano le operazioni d’investimento e le fi nanziano sulla base del merito creditizio. Il vero problema, ragionando in termini aggregati, è che in Italia, come dato nazionale, in Abruzzo come dato locale, si stanno manifestando in modo repentino alcuni cambiamenti che comunque da qualche decennio erano nell’aria. Per un sistema industriale come quello italiano, ancora fortemente manifatturiero (il secondo dopo la Germania), e per rimanere nel locale, come quello abruzzese, che rappresenta per il Mezzogiorno uno degli esempi a maggiore concentrazione manifatturiera, i tassi di crescita iperbolici di paesi come la Cina, l’India o paesi in rapidissimo sviluppo, si traducono nella perdita di volumi che anno dopo anno conducono a una minore incidenza sul pil europeo e mondiale. Questa crisi probabilmente ha anche l’effetto di costringere a prendere atto quasi all’improvviso di un deterioramento, un travaso della struttura produttiva da paesi manifatturieri a economia consolidata come l’Italia (e di rifl esso l’Abruzzo) a paesi emergenti come la Cina. Pensare di rispondere a questa crisi insistendo sul manifatturiero classico è fuorviante. Il divario in termini di costo del lavoro è tale che non può essere colmato nemmeno nella migliore delle ipotesi. Il costo del lavoro nei paesi emergenti è nell’ordine di grandezza di un decimo, un ventesimo del costo del lavoro in Italia. Qual è la situazione reale? “Ogni volta che c’è stato un cambiamento epocale, come quello che stiamo vivendo, in cui paesi come la Cina o l’India stanno tornando ad essere quello che erano fino al Settecento, e cioè la grande manifattura del mondo, e nel momento in cui questo processo si sposta di nuovo in quei paesi, non possiamo che cercare di ridefinire una vocazione produttiva, che quando è stata condivisa, ha sempre prodotto ottimi risultati. Il Teramano ha avuto un’economia meravigliosa nel tessile-abbigliamento come nel calzaturiero-pellettiero. Questo successo si è avuto perché era la strategia migliore in quel momento storico, ed è stata condivisa. Anche le strutture erano create in coerenza con quella politica. Oggi ciò che appare sempre più evidente è la mancanza di una politica industriale condivisa. Bisognerebbe riuscire a ridefinire una vocazione nel Teramano, ma in senso più ampio in Abruzzo e in Italia, sapendo che non possiamo più fare affidamento sugli strumenti che hanno sempre premiato il recupero di produttività e competitività in termini di svalutazione del tasso di cambio, di minor costo del lavoro e finanza agevolata. E’ difficile invertire strutturalmente il declino produttivo a cui ci stiamo lentamente abituando, ma non è un caso che la Germania cresca al 3,4 % e l’Italia solo al’1%. Mentre il nostro settore produttivo sconta ancora l’abitudine maturata in decenni di storia economica di recupero di competitività con svalutazioni, in Germania accadeva l’opposto, cioè un sistema produttivo abituato a convivere per decenni con continue rivalutazioni del marco. Sono cambiati i termini e la prospettiva del problema”. Quale potrebbe essere la soluzione? “Provare a ridisegnare la vocazione produttiva della Provincia di Teramo, della Regione e concorrere in questo a ridisegnare anche quella del Paese e magari farlo insieme alle aziende. Per funzionare occorre un sistema di alta formazione, rappresentato dalle università, così come avveniva negli anni passati in cui percorsi formativi istituzionali consentivano di rispondere effi cacemente alle richieste di professionalità. Per ridefinire la vocazione bisognerebbe rafforzare questo rapporto, puntare ancora di più su ricerca e alta formazione, anche non universitaria, per ricercare in questo valore aggiunto il recupero di competitività”.