L’abituale utilizzo di internet da parte dei giovani ha comportato il graduale trasferimento delle relazioni sociali, distorsioni comprese, dalla realtà materiale a quella virtuale. Ne è un esempio tangibile la diffusione del c.d. cyberbullismo fenomeno consistente nella ripetizione di atteggiamenti finalizzati ad offendere, intimorire, umiliare la vittima attraverso i mezzi elettronici come i social network, i blog e i telefoni cellulari.
Il cyberbullismo, pertanto, altro non è che la riproduzione in rete di un comportamento delittuoso molto comune e diffuso tra i ragazzi con ripercussioni ed effetti sulla persona, però, spesso molto più spiacevoli. Chi attua dette vessazioni, infatti, oltre a non essere immediatamente individuabile, non avverte concretamente il danno che provoca alla vittima e spesso per tali ragioni è portato a proseguire ininterrottamente la sua azione.
Inoltre il potenziale divulgativo di un mezzo di comunicazione quale internet rende la diffusione dei maltrattamenti praticamente illimitata. Ciò in quanto la circolazione delle proprie informazioni e la disponibilità ad ulteriori contatti, accessi e relazioni con possibile propagazione e condivisione a catena, espone l’utente anche a molteplici rischi di subire “abusi” o, comunque, usi illeciti o quantomeno non espressamente consentiti dei propri dati. Ovviamente l’incontrollata esposizione della propria vicenda in rete provoca conseguenze e reazioni ben più gravi rispetto a quelle legate a episodi di vita reale. Come per molte forme di condotte criminose di “nuova generazione” il nostro ordinamento non prevede un precetto penale specifico e, pertanto, le condotte catalogabili come cyberbullismo vengono combattute attraverso l’applicazione di disposizioni mirate a punire contegni assimilabili quali la diffamazione, l’ingiuria, la minaccia, la violenza privata ecc.. Peraltro, oltre alla personale responsabilità del giovane che compie la prevaricazione deve essere anche considerata una responsabilità civilistica dei terzi per quanto concerne il risarcimento dei danni subiti dalla vittima in conseguenza delle prepotenze.
Tale responsabilità deriva dall’applicazione dei principi della culpa in vigilando e della culpa in educando sanciti dagli artt. 2047 e 2048 del codice civile. L’efficacia deterrente di tali norme però pare dai più non sufficiente ad arginare il fenomeno e per questo si rincorrono varie proposte di legge volte a colmare la lacuna normativa. Il percorso di riforma tuttavia incontra notevoli difficoltà legate alla definizione e delimitazione del tema ed al rischio di creare nuovi reati per situazioni già sanzionate penalmente.
Ed allora per molti addetti ai lavori la soluzione migliore resta quella della prevenzione con il coinvolgimento diretto delle scuole e dei genitori indirizzando il percorso educativo del figlio affinché questi non venga protetto ad ogni costo ma sia consapevole degli effetti dei propri comportamenti assumendosi le sue responsabilità.
PrimaPagina edizione Maggio 2014 – Nicola Paolo Rossetti Pres. Giovani Avvocati Teramo