TARANTO – Ho sempre in libreria il suo ultimo libro legato a Taranto: “Il Borgo prima del Borgo”, archeologia di una città millenaria che Nicola teneva nel suo cuore, come nel cuore era l’Anfiteatro, uguale a quello di Verona, che lui ha visto coperto dalla cecità di urbanisti da quattro soldi che Taranto non meritava.
Il mio incontro con lui, al di là di vecchie frequentazioni politiche, fu legato ad un corso di formazione a Montemesola, dove incaricato da me come docente, cambiò completamente il punto di vista di allievi delusi dal vivere in un’area interna.
Ha scavato negli archivi storici di tutto il sud. E’ una miniera di notizie, dettagli, fatti e fatterelli sui popoli antichi che popolavano le nostre terre: Iapigi, Parteni e Messapi, Peuceti e Appuli, Greci e Romani, dal Medioevo al Rinascimento. Ha scritto diversi libri su questi argomenti.
A Montemesola parlò del Palazzo Marchesale, del clero di Grottaglie, delle battaglie per il territorio, dei trappeti ipogei dell’oro giallo della Taranto del’600, ma voglio ricordarlo con il racconto della lezione all’aperto di 23 anni anni fa.
“Vicino alla gravina, scavato nella roccia, c’era un trappeto: un frantoio ipogeo usato per la spremitura delle olive dal ‘500 fino ai primi dell’800. Un antro spettrale interamente infestato da pipistrelli che svolazzano radendo le nostre teste. Nel fondo troneggiava, spostata dal sito, la grande ruota di pietra ch’era utilizzata per macinare le olive. L’olio era l’oro giallo di quei tempi.”
Nicola aveva descritto l’ambiente sociale di quel periodo storico. Nei trappeti venivano utilizzati bambini a raccogliere le olive e per mesi, durante la campagna olearia, erano costretti a stare sotto terra a guardia del prezioso liquido dei feudatari. Per questo motivo s’intravedevano giacigli fatti di pietra e piccoli altari per garantire il minimo, per la salute del corpo e dello spirito.
Quando uscimmo dal trappeto sembrava che fossimo stati vomitati dalla pancia della gravina. Nicola si era messo a girare nella campagna, saltellando con movimenti un po’ goffi sulle pietre. Ogni tanto scuoteva la testa dicendo: “Non è possibile, eppure stavano qui! “Cosa stai cercando – gli chiesi- “Dei fori sulla roccia. Maledizione, erano qui – imprecò il professore. “Professo’, guardate qui, forse sono questi?” domandò uno dei ragazzi. Nicola corse verso quel punto ed esclamò: “Ecco sì, sono questi!”
I buchi per terra erano tanti, sparsi un po’ dovunque. Perfettamente allineati, in fila alcuni, in cerchi concentrici altri. Nicola descriveva, facendo ampi gesti con le mani, quello che doveva essere un grande villaggio capannicolo di cinquemila anni addietro.
In una piccola altura, lì vicino, c’era persino una piazza, interamente scavata nella roccia. Serviva per battere il grano, ma anche come luogo di socializzazione. “Siamo qui da sempre” pensavo a quello che aveva detto in aula il professore.
Il secondo giorno alla visita esterna Nicola fu accompagnato da Saverio, l’altro docente che aveva parlato delle risorse delle aree interne. Andammo a visitare alcune antiche masserie del circondario. Quando camminavamo nella campagna, Nicola spiegava in continuazione. Era come se parlasse con i ruderi, come se conoscesse quel territorio metro per metro.
“Guardate, qui in questo tratturo sono ben visibili i segni dei carri. Queste carreggiate sono state per molti secoli le uniche vie di comunicazione tra i casati ed i paesi, – disse Nicola. –
Le masserie erano tutte in grave stato di abbandono. Un patrimonio culturale di grande valore. Alcune stanno lì da più di quattro secoli. Un pezzo della storia sperduto nella maggese.”
Dovevamo trovare una struttura che potesse essere utilizzata dai ragazzi per la loro impresa.
Ma ci muovevamo in un campo per noi ignoto. Non sapevamo nulla della proprietà di quelle aziende, molte erano già state vendute.
Quella sera l’aria era diventata fredda e sferzante. Arrivammo nei pressi del Mar Piccolo. La città si intravedeva avvolta dai fumi dell’acciaieria. Davanti a noi c’era il rudere della masseria del Barone Pazzo, il cui toponimo richiamava chissà quali misteriose vicende. Sotto: cisterne di epoca romana, si aprivano dappertutto. E ancora un piccolo trappeto nascosto da un albero di fichi, e tante, tante tombe già visitate dai tombaroli.
Era come un vero parco archeologico, abbandonato là, davanti a noi. Nicola stava immobile a guardare quel posto scoperto e frequentato da una vita. Millenni di memoria di epoche varie dispersi nella campagna. E per davvero Nicola era riuscito a far parlare le pietre. Quasi sentivo, portato dal vento, come un sottile brusio, la voce del tempo.” Ciao Nicola!
Roberto De Giorgi