“Bisogna avere coraggio di cambiare l’Università, non difendendo lo status quo ma premiando i giovani meritevoli, i nuovi ricercatori e le Università che puntano sulla qualità eliminando gli sprechi e i corsi inutili”. Parole del ministro Gelmini. La riforma universitaria tiene banco nelle università italiane dove la protesta incalza soprattutto tra i ricercatori che chiedono la regolarizzazione di una categoria fondamentale per il tutto il sistema universitario. Gli atenei ritardano l’inizio delle lezioni del nuovo anno,
con alcune eccezioni, e scendono in strada per contrastare una riforma che per molti mette definitivamente in ginocchio l’istruzione italiana. Abbiamo intervistato su questo tema Giovanni Di Bartolomeo, professore associato di politica economica presso la facoltà di Scienze della Comunicazione a Teramo. Quali le sue impressioni su questa riforma che tanto fa discutere? La mia impressione generale è che la riforma non affronti quello che è il vero problema dell’università italiana, ovvero la mancanza di risorse. I problemi dell’istruzione italiana, ci metto anche quelli della scuola, non si possono risolvere con una riforma a costo zero, e se si vuole importare quello che funziona dall’estero, come sembra, forse bisognerebbe andare a guardare la spesa sul Pil dei paesi esteri cosiddetti virtuosi in termini di istruzione. Secondo il ddl non tutti gli atenei riceveranno gli stessi fondi, quelli migliori ne riceveranno di più; non tutti i professori riceveranno lo stesso stipendio, ma quelli migliori avranno di più. In questo senso secondo la Gelmini si creerebbero incentivi a migliorare… Per ora sono stati bloccati gli scatti agli stipendi dei docenti, che di fatto pagheranno l’istruzione degli studenti rinunciando a circa centomila euro ciascuno sul loro reddito totale, un po’ come avviene quando si crea lavoro con gli stage a pagamento, chi lavora paga. Ad ogni modo, la maggior parte dei docenti è d’accordo sulla meritocrazia, il problema è che i seri sistemi di valutazione ex ante ed ex post sono costosi e ovviamente non contemplabili all’interno di una riforma a costo zero. L’unico punto positivo è il ritorno del concorso nazionale, che garantisce più pubblicità e trasparenza alle procedure di selezione. Si può parlare di riforma contro il potere dei cosiddetti “baroni”? Questa idea che viene spacciata in giro secondo cui questa riforma avrà l’effetto di eliminare i cosiddetti “baroni” dal sistema universitario fa abbastanza ridere, basta notare che la riforma è supportata dalla CRUI, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, e osteggiata in primis da ricercatori e studenti. Per non parlare della norma salva rettori e del fatto che nei concorsi per associati e ricercatori ora delle commissioni fanno parte solo i cosiddetti “baroni”, mi sembra un ragionamento un po’ incoerente. A proposito dei ricercatori, che idea si è fatto della loro protesta? Qui occorre chiarire un’ambiguità, i ricercatori sono una categoria di persone che lavorano nell’università a tempo indeterminato, pagate poco, come tutte le categorie docenti, almeno in termini comparativi rispetto gli altri paesi sviluppati. La loro protesta è articolata su posizioni diverse; in parte si protesta per i problemi del sistema dell’istruzione e in parte per la loro posizione. Sulla prima sono d’accordo, sulla seconda si tratta di una protesta legittima, ma una protesta che riguarda una categoria che non si risolve certamente “regalando” avanzamenti di carriera, ma garantendoli ai meritevoli. Questa, credo, sia la posizione non solo mia, ma anche dei più bravi; occorre notare che non tutti i ricercatori, come non tutti i gli altri docenti, sono cervelli in fuga, molti in un’università straniera non sarebbero mai assunti. Quindi i ricercatori di adesso non sono precari? In senso lato ricercatori sono i precari (dottorandi ed assegnisti), i ricercatori, i professori associati e gli ordinari (i “baroni”), ma in senso stretto chi protesta sono i ricercatori a tempo indeterminato che chiedono legittime garanzie sul loro avanzamento di carriera, ma come detto non solo questo. A mio avviso, il vero problema non è tanto quello dei ricercatori attuali, quanto quello di coloro (i veri precari) che vorranno in futuro intraprendere un percorso che li porterà a diventare ricercatori. La normativa prevede un periodo di massimo 6 anni a tempo determinato durante il quale il ricercatore a tempo determinato, conseguita un’idoneità nazionale, potrà diventare professore associato di ruolo; questo sistema di reclutamento potrebbe anche funzionare bene se si stanziassero i fondi per l’eventuale assunzione a tempo indeterminato al momento del bando di ricercatore e si creassero gli incentivi per le università per chiamare ricercatori di una certa bravura. Se i fondi e gli incentivi fossero definiti all’inizio, i ricercatori a tempo determinato andrebbero benissimo, ma così non è. Questo punto della riforma potrebbe funzionare se ci fossero fondi sicuri destinati all’assunzione dei ricercatori/futuri professori associati? Esatto, con fondi per l’eventuale passaggio a tempo indeterminato ed incentivi per le università a chiamare i bravi fissati prima; garantendo comunque risorse anche per le progressioni di carriera dei ricercatori a tempo indeterminato (e i professori associati), vincolate a seri criteri di valutazione. Ma i fondi devono essere veri, altrimenti continuiamo a giocare il gioco delle tre carte. E ci ricolleghiamo alla sua affermazione iniziale. Il vero problema del sistema universitario italiano, ma dell’istruzione più in generale è la mancanza di fondi da destinare alla formazione? Certo, noti che non parlo di carenza di fondi per la ricerca, ma di fondi che mancano per il riscaldamento. La riforma teoricamente contiene dei punti molto interessanti, ma nella pratica è uno specchietto per le allodole. Si fonda su una campagna giornalistica che evidenzia parentopoli, concorsi truccati, vecchi baroni che sfruttano giovani ricercatori. La realtà non è questa, anche se il sistema può essere migliorato. In Italia credo sia molto più facile diventare professore ordinario piuttosto che autista di un ministro e di parenti di politici sono zeppe le varie authority pubbliche. In realtà il sogno dei politici è quello di mettere in mano le università (con la riforma della governance) a manager pubblici, lottizzandole, per creare posti a persone che non lo trovano nella politica con il risultato di trasformare le università e le scuole in qualcosa di simile alle Asl, che mi sembra non siano un esempio di efficienza. L’università per funzionare ha bisogno solo di maggiori fondi, personale amministrativo qualificato ed efficiente e di un sistema serio di valutazione ed incentivi per i docenti, tutto questo è ciò che la riforma promette, ma tutto questo costa e la riforma rimane, per ora, una riforma a costo zero anzi sottozero visto che con il blocco degli scatti stipendiali la pagano i docenti stessi.