Padri che fuggono, uccidono, padri che si vendicano delle loro ex compagne colpendole nel loro punto più debole: i figli. La cronaca degli ultimi anni è piena di episodi in cui sulla ribalta si erge la figura di un genitore che, dopo essere stato lasciato dalla moglie o dalla convivente, decide di vendicarsi sul proprio figlio. A volte si tratta di uomini già di per sé violenti che, non potendo più sfogare la loro bestialità sulle proprie donne, decidono di punirle con una scelta atroce, andando a colpire gli affetti piu’ cari. Si pensi all’uomo che, lasciato dalla compagna dopo l’ennesimo maltrattamento, ha gettato nel Tevere il suo bambino di pochi mesi. Più spesso si tratta di uomini “normali”, padri considerati affettuosi e amorevoli, che imprevedibilmente cambiano la loro natura mite per diventare assassini. Chi non ricorda il caso delle gemelline scomparse – probabilmente uccise – che il padre, Matthias Schepp, ha portato con sé nell’abisso della sua follia? È ancora recente, ma di tutt’altro genere fortunatamente, il caso di Yuri, giovane padre di Valle Castellana che, dopo la decisione del Tribunale dei minori di Ancona di affidare la custodia del bambino alla mamma, è scappato portandosi dietro il figlio. L’uomo si è costituito dopo dieci giorni. Uno dei pochi casi a lieto fine. Ma cos’è che spinge un padre che ama (o che dice di amare) il proprio figlio, ad accanirsi contro di lui per punire sua madre? Quale la molla che scatta? E perché quest’ultimo caso si è risolto in maniera diversa? Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Carla Pompilii, psicoterapeuta clinica a indirizzo fenomenologico-esistenziale, specializzata in psicoterapie integrate. «Premesso che ogni episodio è un caso a sé, – esordisce l’esperta – la violenza, la gelosia fino al possesso sono il retaggio di una mentalità maschilista ancora dura a morire. Dopo un abbandono, una persona sana, con un buon equilibrio, riesce a reagire in modo positivo, superando le difficoltà. Ma quando siamo di fronte a un individuo già di per sé violento, incapace di usare la parola per risolvere i conflitti, ecco allora che l’uomo ferito nell’onore ricorre alla minaccia, alla violenza verbale e, infine, a quella fisica fino ad arrivare, nei casi più estremi, all’omicidio.» Si tratta di persone in cui improvvisamente scatta qualcosa, o questo disagio era già latente? «Spesso chi compie questi atti è un uomo che ha grossi problemi relazionali e di inserimento sociale.» Però i familiari ne parlano come di individui del tutto “normali”, almeno prima dell’accaduto. «È molto difficile riconoscere i sintomi di un disagio e, spesso, l’unico in grado di cogliere certi segnali è solo uno psicoterapeuta; nel senso che è molto raro che una persona con tali difficoltà se ne renda conto e chieda un intervento terapeutico. Se così fosse, certe tragedie si potrebbero davvero evitare. Invece, il più delle volte, né i familiari né il soggetto si rendono conto che un mediatore familiare può essere di aiuto. Prendiamo il caso di Schepp, ad esempio. Un uomo che è riuscito a mascherare il suo malessere sotto l’aspetto di un apparente equilibrio. Un uomo normale, amorevole con le figlie, ma che è stato capace di pianificare con lucida freddezza la sua vendetta. Ma anche quando il disagio è palese, la famiglia o la partner stessa non riescono a vedere.»
Cosa intende? «In queste famiglie, molto probabilmente, la violenza viene tollerata, considerata normale. Forse per retaggio culturale, perché la forza, l’arroganza, il senso dell’onore in una società che non è ancora riuscita a liberarsi da un certo maschilismo, sono considerati dei pregi. In questo modo si innesta una pericolosa spirale che mina l’autostima e la forza di reazione della donna che accetta passivamente finché, in alcuni casi, si va a sfociare in situazioni estreme. Ma anche quando alcune donne trovano la forza di ribellarsi denunciando, spesso si trovano sole. Non ricevono cioè un vero supporto dalle forze dell’ordine a causa delle lacune legislative ancora da colmare. Si pensi ad esempio ai numerosi casi di stalking che sono sfociati in delitti; quante volte si è poi scoperto che la vittima aveva già denunciato il suo aggressore?». Oltre al disagio personale, vi possono essere altre cause più profonde che coinvolgono aspetti sociali più complessi, come ad esempio il mutato rapporto
uomo-donna o la crisi e lo sfaldamento della famiglia tradizionale? «Sicuramente il mutato rapporto uomo-donna può in certi particolari soggetti cui ho accennato influire negativamente. La maggiore indipendenza della donna, la possibilità di scegliere di separarsi o divorziare, mentre in passato era costretta a sopportare, puo’ aggiungere instabilità in persone ancora culturalmente legate a questa mentalità. Si tratta comunque, come ho detto, di individui con uno scarso equilibrio interiore, incapaci di fare i conti con questa diversa realtà, individui che invece di ricorrere alla parola per risolvere le controversie preferiscono le minacce e la violenza e, in sostanza, incapaci di controllare la propria rabbia e la propria aggressività.» Ma perché un uomo che dice di amare i propri figlio si è sempre dimostrato un buon padre può arrivare a far loro del male? «Prima di tutto bisogna premettere che la maternità e la paternità sono due meccanismi che si attuano in maniera molto diversa. La maternità è automatica, il senso materno nella donna nasce nel momento stesso in cui scopre di portare un figlio in grembo, mentre per il padre è più complesso. La paternità si instaura al momento della nascita del bambino e, in alcuni casi, anche più in là, quando cioè il bambino è in grado di relazionarsi. Inoltre, è un fenomeno abbastanza normale che il padre provi una sorta di gelosia nei confronti del bambino, poiché va a sottrarre le attenzioni della partner nei suoi confronti. Non è raro infatti che l’uomo tradisca proprio durante questa delicata fase. Comunque, per tornare ai fatti di cronaca, non credo che si possa parlare di un vero rapporto padre-figlio in questi casi. Spesso questi padri non hanno una vera relazione affettiva con i propri figli, non provano empatia o vero affetto. Anche ciò fa parte della difficoltà di questi individui di relazionarsi con gli altri; anche se si tratta del proprio figlio.» Parliamo invece di Yuri, il papà che è fuggito con il figlio di tre anni. In cosa, secondo lei, è diverso dagli altri episodi di cronaca? «Credo che per quanto legalmente sbagliato sia stato il comportamento di questo ragazzo, non si possa assimilarlo ad altri episodi di cronaca come quello di Schepp o del padre che ha gettato nel Tevere il proprio bambino di pochi mesi. Qui siamo di fronte a una sofferenza vera da parte di un padre che ha deciso di fuggire proprio per tutelare il suo rapporto con il figlio. Anche la scelta di costituirsi ci fa capire che si tratta di un soggetto sano. Direi che questo caso rientra più che altro nella problematica dei figli di genitori appartenenti a paesi diversi, con tutte le relative problematiche post separazione. In questi casi accade spesso il contrario. Se è vero che molte donne subiscono le violenze o le ritorsioni di partner violenti, sempre più spesso ultimamente, le donne, consapevoli di essere maggiormente tutelate dalla legge, usano i figli come ritorsione verso mariti e compagni. Si tratta di una “violenza passiva” che non utilizza la forza. Molto più sottile e subdola, ma non per questo meno devastante.»