In un interessante articolo apparso il 17 agosto 1965 nell’ Avvenire d’Italia, dal titolo Seminari e scuola, don Gabriele Orsini si interrogava sulla crisi dei seminari e, di riflesso, sulla diminuzione dei sacerdoti in Italia, avanzando alcune proposte di carattere formativo, che suscitarono un attento dibattito, al quale parteciparono anche due vescovi.
Don Orsini sostiene che occorreva conservare i seminari minori come luoghi privilegiati per la formazione degli aspiranti sacerdoti, aggiornandoli alla luce dei principi psicopedagogici messi in luce dal Concilio Vaticano II, e togliendo da essi le scuole medie e ginnasiali che i giovani avrebbero potuto frequentare negli istituti statali.
L’ autore ritiene che solo in questo modo si potevano salvare i seminari in fase di svuotamento da quando,
con l’ istituzione della scuola media dell’ obbligo in tutti i comuni, le famiglie, in prevalenza di modesta estrazione sociale, non avevano più motivo di mandare i fi gli nei seminari diocesani per far continuare loro gli studi successivi alle suole elementari. La Chiesa, che in un primo momento ritenne che gli studi dovessero essere compiuti nei seminari, successivamente dal 1970 iniziò a mostrare una certa apertura, consentendo ai Vescovi di inviare gli alunni
in scuole cattoliche esterne, o in altre scuole.
Senonché questa proposta, pur ragionevole, fu disattesa dalle scelte che molti vescovi compirono tra il 1968 e il 1970, influenzati, tra l’altro, dalle contestazioni studentesche, che approdarono anche nei seminari e negli studentati conventuali, reputando che i seminari minori non erano più al passo con i tempi, che occorreva
superare l’<<isolamento>> dei giovani, ponendoli a contatto con il mondo e ammodernando i metodi formativi.
La conseguenza fu che tanti seminari minori, che rappresentavano il vivaio delle vocazioni sacerdotali, furono chiusi, o in gran parte trasformati in una sorta di collegi, che, praticando un’educazione molto aperta, ricorrevano alle scuole medie statali.
e vie alternative alla formazione ecclesiastica, studiate da specifi che commissioni pontifi cie, non sortirono gli effetti sperati. Nell’ arco di un trentennio, dal principio degli anni ‘80 ad oggi, si è assistito in Italia ad un crollo pauroso delle vocazioni sacerdotali.
Per dare un’ idea del regresso numerico dei sacerdoti, si possono prendere a riferimento i seguenti dati a partire dal 1881. In questo anno, secondo i dati riportati dal sociologo R. Cipriani, erano 80.000 su 29.971.000 abitanti (1 su 374). Nel 1931 erano circa 50.000 su 39.000.000 abitanti (1 su 780). Dal 1931 al 1981 si è registrata una diminuzione di 10.000 unità, e venticinque anni dopo nel 2005 si è registrata un’ ulteriore contrazione di circa
8.000 unità. Ne consegue che a tale data i sacerdoti si attestano attorno alle 32.000 unità.
In mancanza di statistiche relative all’ ultimo novennio (2005-2014), si puo’ stimare realisticamente la perdita di altre 3.000 unità, tra deceduti ed ex sacerdoti dimessi con o senza dispensa. Pertanto si puo’ ritenere che il numero complessivo dei sacerdoti oggi sia intorno alle 29.000 unità su 59.000.000 abitanti (1 su 2034).
Nella Diocesi di Teramo-Atri la situazione è critica se si considerano i soli sacerdoti titolari di cure pastorali:
sono 73 a fronte di 187 parrocchie.
Non lo è se si considerano i religiosi utilizzati nella cura, che sono 28, e i presbiteri di altre Diocesi, che sono 26, temporaneamente utilizzati nella nostra Diocesi. In tal modo i sacerdoti impiegati nella cura salgono da 127, riuscendo, in virtù degli accorpamenti operati dall’Uffi cio pastorale, a servire, sia pure periodicamente, tutte le parrocchie: il che comporta che molti sacerdoti servono più parrocchie (da un minimo di 2 ad un massimo di 8 o di 9, come accade rispettivamente ai parroci di Torricella Sicura e di Nerito).
ulla scorta dei precedenti dati, e rifl ettendo sul saldo negativo tra nuove ordinazioni e decessi, non ne puo’
scaturire che una sempre più consistente diminuzione dei sacerdoti. E’ evidente che in questo scenario, a
meno di un’ inversione di tendenza, si raggiungerà una criticità tale che non sarà più possibile assicurare materialmente la cura pastorale nella stragrande maggioranza della chiese. La soluzione all’ orizzonte potrà essere la sempre più ampia concentrazione delle cure in chiese principali, sia per le messe, per le funzioni religiose varie che per l’ amministrazione dei sacramenti. Ci si chiede, al termine di questa breve analisi, se ci possa essere un rimedio atto ad arginare il decremento vocazionale. Qualcuno ritiene che la soluzione possa consistere nell’abolizione
dell’ obbligo del celibato ecclesiastico, che, pur fondato su fonti scritturali, e giustifi cato dal punto di vista spirituale, andrebbe rivisto, essendo stato determinato da una norma canonica, risalente ad alcuni Concilii, e codifi cata da ultimo dal Tridentino.
In verità l’abolizione dell’ obbligo del celibato dei sacerdoti diocesani (non regolari, essendo vincolati al voto di castità), non inciderebbe che minimamente sulla crescita delle vocazioni. La scelta del sacerdozio è fondata su ben altri presupposti, che attengono alla sfera della coscienza, alla formazione, all’esperienza spirituale e, prioritariamente, alla “chiamata del Signore”. Il fondamento è la vocazione alla vita religiosa, rispetto alla quale il matrimonio è come l’accidente rispetto alla sostanza, per dirla con il linguaggio aristotelico. Giustamente don Orsini
osserva che chi pensa che “con l’abolizione del celibato obbligatorio per i sacerdoti si potrebbe senz’altro rimediare alla scarsità delle vocazioni”, compie un grossolano errore di valutazione, incorrendo in “ragionamenti superfi ciali, che solo chi non intende il signifi cato della scelta sacerdotale e del celibato, puo’ fare”.
Le ragioni che inducono alla scelta della vita sacerdotale sono altre e non dipendono af atto dall’esistenza o meno del celibato. In sostanza, non si sceglie d’ essere sacerdoti perché ci si può sposare!
Se fosse così, il problema già si sarebbe risolto da tempo e già si sarebbe aperta “una nuova primavera nella Chiesa”, come scrissero gli anonimi autori di un libello. Sono opportune qui le considerazioni del Beato Paolo VI, che nell’ enciclica Sacerdotalis caelibatus del 24 giugno 1967, esaminando le varie obiezioni sul celibato ecclesiastico, scrisse con straordinaria lucidità: “Non si può senza riserve credere che con l’abolizione del celibato ecclesiastico crescerebbero perciò stesso, e in misura considerevole, le sacre ordinazioni: l’esperienza contemporanea delle
chiese delle comunità ecclesiali che consentono il matrimonio, sembrano deporre il contrario”.
Il vero è che la Chiesa per riparare alla crisi delle vocazioni, dovrebbe ripensare l’identità del sacerdote, per adeguarla alle sfi de della società attuale. Occorrerebbe una rifl essione teologica e canonica, che delinei una
nuova fi gura del sacerdote, facendo in modo che il perenne mandato evangelico, che lo costituisce per
l’umana salute (pro hominibus constitutus, come dice San Paolo), ne faccia veramente uomo tra gli uomini, integrato pienamente nella società civile.
Nell’ ambito di questa rifl essione si potrebbe discutere la disciplina del celibato, suscettibile di revisione, come tutte le norme di diritto positivo, e verifi care se e come la vita coniugale possa conciliarsi, sotto vari profi li, con la vita sacerdotale, raf rontandola con altri modelli di sacerdozio coniugato, come avviene nella Chiesa orientale, anche cattolica, e in quella anglicana. Mentre si ritiene che la rifl essione in generale potrà essere af rontata a breve termine, quella attinente al celibato ha bisogno di tempi molto più lunghi, anche se verrà il momento in cui dovrà
essere af rontata anch’ essa.
PrimaPagina edizione gennaio 2015 – di Giovanni Di Giannatale